di Giuseppe
Reina
Marsilio, 2016
pp. 161
€ 15
C’è
stato un tempo in cui la bussola della Storia pareva come impazzita: poco dopo
l’anno Mille, se si cercava il Nord si doveva andare a Sud. I normanni, un
popolo fiero e battagliero proveniente dalla Penisola scandinava, da poco tempo
convertitosi al Cristianesimo, “liberò” infatti la Sicilia dalla dominazione
araba, ormai vecchia di un secolo. Questo Itinerari italo-greci in Sicilia. I monasteri
basiliani di Giuseppe Reina (noto storico dell’architettura
che insegna all’Università di Catania), edito da Marsilio, è un libro utile a
comprendere una ben selezionata porzione della questione, delimitando una
precisa area di ricerca sia tematologica che geografica (i monasteri di culto
greco ortodosso nell’area del Valdemone) per consegnarci un quadro, va detto
abbastanza fedele, di quei tempi che ci appaiono così confusi ma anche così
istruttivi per noi. Se è vero che dopo l’Anno mille l’ago magnetico della
bussola della Storia per segnare il Nord si spingeva a Sud, di quel mondo “sottosopra”
noi ritroviamo alcune tracce, indelebili, ancora ai giorni nostri, in special
modo per quel che concerne l’incontro/scontro
di culture.
Il volume di Giuseppe Reina si presenta
molto compatto, con un numero di pagine non eccessivo e scritto in una maniera
che, anche chi non è avvezzo della materia prettamente architettonica, anzi di
storia dell’architettura, può raccapezzarsi senza troppe difficoltà. L’intento
di Reina (già esplicato nell’introduzione
“Studio per gli itinerari italo-greci in Sicilia: premesse e il metodo di
lavoro”) è quanto mai esplicito ed evidente. Ovvero analizzare la valle del
Valmedone, situata nella parte orientale dell’isola (l’ultima, tra le altre
cose, ad essere stata conquistata dagli arabi, dettaglio non da poco) e che
presenta una serie di edifici di culto praticamente perfetti per mostrarci le
diverse stratificazioni storiche e culturali (leggasi passaggio delle
dominazioni, passaggio dei culti ad esse connessi). Un procedimento di analisi
molto interessante perché sfrutta, al tempo stesso, le caratteristiche della
ricerca “particulare”, ovvero l’analisi
molto circostanziata sia a livello di tema (il movimento cenobitico orientale
in Italia meridionale, di cui gli edifici presi in esame sono una diretta
espressione) sia a livello di zona (il già citato Valdemone) sia quelle dell’analisi globale, andando ad inserire questi spunti di analisi in un
discorso molto più ampio, ovvero le dominazioni in terra di Sicilia, il
sincretismo religioso e quello culturale.
Emerge con evidenza come, nonostante un
rapido declino, il monachesimo greco in quell’area ha permesso la conservazione
di edifici dalla pianta ibrida, ovvero che presentano al tempo stesso elementi
orientali (in special modo bizantini più che arabi) e occidentali/nordici anche
normanni si potrebbe dire. Perché, come si legge nel capitolo “Caratteri
tipologici delle strutture architettoniche dell’itinerario italo-greco in
Valdemone” nonostante le differenze, pure sostanziali, di questi edifici (che
sono, è bene ricordarlo, le chiese di San
Filippo di Fragalà a Frazzano, la Chiesa
dei Tre Santi di San Fratello, Santa
Maria di Mili, San Pietro e Paolo d’Itàla
ed infine la Chiesa dei Santi Pietro e
Paolo d’Agrò, presentano tutti quanti elementi in comune con edifici
calabresi, elementi che hanno spinto alcuni studiosi a riconoscere in tali
esperienze il segno di una vera e propria corrente architettonico/artistica
alternativa. In realtà lo stesso Reina riporta la questione su altri lidi:
fatto salvo che non si tratta di esperienze artistiche altre, l’importanza di
questi cinque edifici si evidenzia in un irrisolto, in un contrasto/scontro tra
religioni e civiltà che i sovrani normanni, lungi dal volere sciogliere, hanno
lasciato in tutta la sua enigmatica ed affascinante contrarietà. Si legge
infatti:
In tutte le chiese siciliane si sente - risolto o irrisolto che sia - l’innesto architettonico fra pianta centrale bizantina e pianta basilicale latina. Nel Valdemone, la distinzione tra il corpo delle navate e quello del santuario è marcata “è come se una chiesa a pianta centrale sia stato staccato un suo terzo (e cioè il versante occidentale, dato che le tre absidi venivano poste ad oriente) e a una chiesa basiliale siano state portate via il transetto e l’abside”. I due organismi così appuntati vengono congiunti mettendo a contatto i fronti lasciati aperti dal sezionamento. Il punto di contrasto e di contatto fra queste due concezioni planovolumetriche è l’arco di trionfo.
Ecco quindi che appare con evidenza come
la lunga dominazione dell’isola da parte bizantina (al di là della, specie in
quella ben determinata zona, breve conquista araba), ha lasciato delle tracce
durature che sono rimaste anche al “cambio della guardia”, ovvero quando i
normanni si sono installati in Sicilia.
I problemi strutturali di aggancio fra due organismi così diversi appaiono naturalmente i più difficili da risolvere e rappresentano uno degli elementi di eclettismo più densi di significato dell’architettura siciliana. L’incontro di due concezioni religiose di una medesima fede, a ridosso dello scisma che ne ha formalizzato la diversità, che qui dà origine a tentativi di sintesi fra l’impianto centrale e longitudinale, mostra l’eco di quel filone che va dall’esperienza normanna di Santo Spirito a Palermo e Santa Maria della Valle a Messina, di quella rinascimentale del Tempio Malatestiano a Rimini, di Santa Maria delle Grazie a Milano e, poi, di San Pietro in Vaticano (…). Volendo dare alle due culture, quella bizantina e quella latina, una pari presenza nell’architettura sacra, o favorendo ora l’una ora l’altra, i sovrani siciliani non risolvono il problema ma lasciano la vibrante tensione di un tentativo di equilibrio pieno di fascino.
Se perciò dal punto di vista artistico/architettonico
il conflitto non risolto è fecondo e costruttivo, così potrebbe essere anche a
livello politico/sociale, in special modo oggi quando i flussi migratori sono
sempre più massicci ed incontrollabili. Certo all’epoca della conquista
normanna si aveva a che fare con due culti, quello greco e quello latino,
appartenenti alla stessa fede ed ora, come ben sappiamo, si debbono fare i
conti con religioni diverse. Tuttavia l’insegnamento che il Millecento può
darci potrebbe essere riassumibile così: “Non è detto che tutte le tensioni
debbano essere risolte e tutte le culture debbano essere unite”. La tensione
creativa e l’incontro non forzoso potrebbero essere davvero il viatico per un
futuro migliore sia in terra di Sicilia che ovunque per gli uomini che abitano
il globo orbe terracqueo.
Mattia
Nesto