Sono Dio
di Giacomo Sartori
NN Editore, 2016
pp. 217
€ 17,00
È difficile descrivere Dio, ce lo ricordava pure Dante, che sul finire della terza cantica veniva sopraffatto dall’ineffabilità della meraviglia cui si trovava dinnanzi. È difficile persino per Dio stesso descriversi, costretto com’è a utilizzare uno strumento limitato come la lingua umana.
Bisogna chiarire ogni concetto, ogni parola:
“Sono Dio. Lo sono sempre stato, lo sarò sempre. Un sempre però con riflessi affilati di diamante, se senza corrispettivi nelle lingue degli umani. Quando un uomo dice ti amerò sempre tutti sanno che quel sempre è una pagliuzza che si libra fragile e inconsistente nell’aria. Un voto velleitario, […] in altre parole una menzogna. Se invece sono io a dirlo, sempre è davvero sempre. Va fatto uno sforzo per capirsi” (1).
Forse il modo migliore è dare una definizione in negativo, smascherare tutti i miti e le false credenze: “Sono Dio e non ho bisogno di pensare. […] Un dio non guarda, non aspetta, non ascolta. Non digerisce, non agogna, non rutta” (1-2). Non ha un corpo comunemente inteso, certo non ha una folta barba e un aspetto imperioso come vorrebbe l’iconografia tradizionale, si è messo a scrivere, ma non sa con certezza – pur ovviamente sapendolo perfettamente nella sua infinita sapienza – per quale ragione. È perfetto e passa le sue giornate a fare infinite cose senza farne nessuna. E, soprattutto, non ha nessuna predilezione per l’essere umano. Grande estimatore delle profondità celesti, in cui ama perdersi in estatiche contemplazioni, Dio considera l’uomo un essere infimo e non si spiega bene come abbia fatto, nella sua limitatezza, ad ergersi al di sopra delle altre creature della Terra: “mi sarei […] aspettato che fossero i leoni, o gli scorpioni, o qualche tipo di combattive formiche. Non gli avrei dato un soldo, a quegli scimmioni che perdevano sempre più peli e si davano sempre più un tono da intellettualini” (68).
L’uomo è meschino e grottesco, arrogante e incredibilmente povero di spirito, egoista e costituzionalmente bugiardo. E poi non ne vuole sapere di morire: “pure gli altri animali tirano le cuoia, e si vede dagli occhi, se li hanno, che non sprizzano felicità, e provano qualche incomodo. La prendono però bene: si mettono semplicemente lì e aspettano di cessare di respirare” (21). Non così gli esseri umani, che lottano, si affannano, pregano, promettono, “mi ossequiano e blandiscono come si paga un’assicurazione, per sentirsi coperti nei confronti di qualsiasi rischio” (20). Non c’è dunque alcun motivo al mondo per cui Dio si interessi delle sorti dell’umanità, né tantomeno di quelle di Dafne, capelli viola e cosce grosse, biologa ricercatrice e inseminatrice di mucche per arrotondare lo stipendio, atea impenitente e incendiaria di crocifissi nel tempo libero, per di più dedita a uno sfacciato libertinismo. Eppure lo sguardo divino – se poi di sguardo si può parlare – ricade sempre su di lei, su di lei ogni interesse e preoccupazione. Narratore onnisciente per definizione, Dio si rivela un po’ voyeur e convincono poco i suoi goffi tentativi di giustificazione: “io proprio non ci tengo a vedere certe cose che fanno gli uomini, ma come ci si può immaginare per un dio non ci sono tetti o tramezze o lenzuola o sotterfugi che tengano: purtroppo mi sorbisco tutto” (25). Così come sorprende che, dopotutto, sempre più coinvolto sentimentalmente – se poi di sentimenti si può parlare – nelle vicende di Dafne, Dio inizi a commettere errori di valutazione e a immischiarsi sempre di più in faccende che non gli competono, rivelando uno spirito dispettoso che poco si confà al suo ruolo super partes.
L’uomo è meschino e grottesco, arrogante e incredibilmente povero di spirito, egoista e costituzionalmente bugiardo. E poi non ne vuole sapere di morire: “pure gli altri animali tirano le cuoia, e si vede dagli occhi, se li hanno, che non sprizzano felicità, e provano qualche incomodo. La prendono però bene: si mettono semplicemente lì e aspettano di cessare di respirare” (21). Non così gli esseri umani, che lottano, si affannano, pregano, promettono, “mi ossequiano e blandiscono come si paga un’assicurazione, per sentirsi coperti nei confronti di qualsiasi rischio” (20). Non c’è dunque alcun motivo al mondo per cui Dio si interessi delle sorti dell’umanità, né tantomeno di quelle di Dafne, capelli viola e cosce grosse, biologa ricercatrice e inseminatrice di mucche per arrotondare lo stipendio, atea impenitente e incendiaria di crocifissi nel tempo libero, per di più dedita a uno sfacciato libertinismo. Eppure lo sguardo divino – se poi di sguardo si può parlare – ricade sempre su di lei, su di lei ogni interesse e preoccupazione. Narratore onnisciente per definizione, Dio si rivela un po’ voyeur e convincono poco i suoi goffi tentativi di giustificazione: “io proprio non ci tengo a vedere certe cose che fanno gli uomini, ma come ci si può immaginare per un dio non ci sono tetti o tramezze o lenzuola o sotterfugi che tengano: purtroppo mi sorbisco tutto” (25). Così come sorprende che, dopotutto, sempre più coinvolto sentimentalmente – se poi di sentimenti si può parlare – nelle vicende di Dafne, Dio inizi a commettere errori di valutazione e a immischiarsi sempre di più in faccende che non gli competono, rivelando uno spirito dispettoso che poco si confà al suo ruolo super partes.
Il romanzo di Giacomo Sartori pare avere allora tutti gli ingredienti per affascinare e divertire il lettore di mente aperta: l’ironia dissacrante con cui vengono rimessi in discussione i luoghi comuni, in primis quelli relativi alla Bibbia, “uno dei romanzi più inaffidabili e deliranti che esistano” (30), e alla Chiesa cattolica; le interessanti riflessioni sulla lingua che pervadono il testo; la crescente insicurezza di Dio, che si fa via via più simpatico man mano che si lascia implicare nelle vicende mondane, che viene “contagiato” dalle emozioni terrene che vorrebbe disprezzare; infine la storia di Dafne, personaggio sfaccettato e umanissimo, che viene descritto e osservato dall’esterno in termini spesso impietosi, ma che finisce per convincere il pubblico quanto il narratore. Si può tuttavia, e questo rappresenta il vero punto debole dell’opera, riscontrare nella narrazione una certa mancanza di equilibrio: troppo spesso Dio eccede nella pesantezza del giudizio, nella sua condanna unilaterale dell’essere umano, nella cinica disinvoltura con cui gli augura a più riprese l’estinzione. Le ragioni ci sono tutte, s’intende, ma l’argomentazione sbilanciata in tal senso finisce per tramutare una storia che poteva essere ironica ed efficace in un romanzo a tesi moralistico e a tratti un po’ lento. Questo non squalifica necessariamente il volume, ma cambia in parte l’orizzonte d’attesa: non ci si deve più aspettare soltanto una lettura agile e disimpegnata, ma una riflessione critica sull’umanità, sulle sue responsabilità nei confronti del pianeta, sulle conseguenze dei suoi comportamenti troppo spesso incoscienti.
Carolina Pernigo