Sin dalla sua presentazione al Festival di Cannes, Youth – La giovinezza (2015), l’ultimo film diretto da Paolo Sorrentino, è stato accolto con giudizi discordanti. Il più obiettivo l’ha probabilmente offerto Lee Marshall: in chiave felliniana, La grande bellezza sta a La dolce vita come Youth sta a Otto e ½. Piaccia o non piaccia, il film è concepito come collezione, non necessariamente lineare, di tableaux vivants e conversazioni in cui la “giovinezza” è un pretesto per riflettere sulla messa in atto dei suoi aspetti più concreti: il rapporto con la corporeità, l’innamoramento, la percezione del tempo. E, aspetto che m’interessa particolarmente, il desiderio inteso nella sua accezione più metafisica, come pulsione verso l’alterità.
Oltre a Otto e ½, l’altro riferimento evocato da quasi tutti i critici è l’opera di Thomas Mann, principalmente la Montagna incantata, ma anche, per qualche aspetto, Morte a Venezia. La trama, d'altronde, denuncia chiaramente quest’affiliazione mitteleuropea: il film, infatti, è ambientato quasi nella sua interezza in una spa di lusso sulle Alpi, «un magnifico posto per rilassarsi», nella definizione di uno dei personaggi più insulsi, dove i ricchi – e, per la maggior parte, vecchi – villeggianti conducono una vita sospesa, tra sedute dal medico, massaggi, sauna e ridicoli spettacoli d’intrattenimento.
Il tema, tutto novecentesco, dell’isolamento nell’albergo-sanatorio è d'altronde particolarmente fortunato nella letteratura europea: oltre alla Montagna incantata, ovviamente, vengono subito in mente tanti altri capolavori, il racconto Inverno di malato di Alberto Moravia (1934), Pabellón de reposo di dello spagnolo Camilo José Cela (1944), Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino (1981, ma scritto negli anni Cinquanta), il romanzo breve La veranda di Salvatore Satta (1930). Youth non è certo l’unica propaggine cinematografica di questa fortuna: il fasto recluso e anacronistico di una struttura alberghiera montana ha ispirato anche Wes Anderson (Grand Budapest Hotel, 2014) e Olivier Assayas (Sils Maria, 2014). Questa premessa è fondamentale perché tutti questi récits, letterari e cinematografici, condividono un aspetto: l’isolamento di un dato numero di individui in un luogo altro, fastoso (l’albergo o la spa) o frugale (il sanatorio) ma sempre decadente, sempre naturalmente liminare, trasforma i personaggi che lo popolano in riflessi più o meno spettrali della loro identità nel mondo di sempre. Le giornate tutte uguali, fatte di gesti ripetitivi, diventano oniriche (non ha dunque senso raccontare una trama lineare) e ulcerose (la ripetitività induce un torpore febbrile, dà voce alle nevrosi).
E di fatto, i personaggi principali di Youth non sono che presenze ‘ulcerose’ in un pacifico ambiente che altrimenti non sarebbe altro che uno di quei blandissimi sogni di cui non ci ricordiamo al risveglio: lo sono, in maniera diversa, gli amici Fred Ballinger (Michael Caine), compositore e direttore d’orchestra in pensione, e Mick Boyle (Harvey Keitel), regista che sta scrivendo il suo «film testamento». Lo è anche Jimmy Tree (Paul Dano), giovane attore californiano. La struttura portante del film è negli scambi frammentari tra questi tre personaggi, che incarnano diversi stadi della realizzazione del desiderio: Mick nella sua espressione più incendiata ed energica (è infatti l’unico ad avere un progetto artistico in fase di realizzazione); Fred in una forma annichilita ma pura, metafisica (si rifiuta di dirigere un concerto per la regina); e Jimmy in una condizione sospesa tra le due, dolorosamente piegata su sé stessa (sta facendo ricerche per rappresentare cinematograficamente la “banalità del male” per eccellenza).
Il resto è solo rumore di fondo. Tutti e tre sono proiezioni dell’io autoriale, in una sorta di ventriloquio sulle possibilità dell’approccio alla vita. Non mi sembra strano, alla luce di questo, che proprio il personaggio più ibrido tra i tre, Jimmy Tree, sia l’unico a pronunciare una citazione letteraria esplicita. Passeggiando con Fred, i due si chiedono vicendevolmente quale sia la cosa di cui sentono più la mancanza. Fred, in un momento di pacata semplicità, risponde che gli manca sua moglie. Jimmy, invece, risponde citando il poeta e filosofo tedesco Novalis, grande esponente del romanticismo tedesco:
"And what does Novalis say?"
"I’m always going home. Always going to my father’s house."
("E cosa dice Novalis?" "Sto sempre andando a casa. Sempre
alla casa di mio padre.")
Una dichiarazione, questa, tanto
quanto e forse più che l’ambientazione in un albergo-sanatorio, che affonda a
piene mani in uno tra i temi più cari alla letteratura occidentale, il nostòs, il principio della vita come
continuo ritorno. Ma il punto, però, è questo: bibliografia alla mano, Novalis
non ha mai scritto la frase pronunciata da Jimmy Tree. Certo, il ritorno a
casa, e nello specifico alla casa paterna, è un tema costante delle sue opere,
e in particolare nel romanzo incompiuto Heinrich von Ofterdingen (1798-1802), dove si può trovare l’affermazione più
simile a quella citata in Youth: »Wo gehn wir denn hin?« / »Immer
nach Hause.« (“Dove stiamo
andando?”. “Sempre a casa”).
La fonte di Sorrentino non è direttamente Novalis, ma un’altra, indiretta e non dichiarata: il filosofo inglese Isaiah Berlin. In una delle sei famose lezioni sulle origini del Romanticismo tenute a Washington nel 1965 – lezioni registrate dalla BBC e più volte riproposte, e infine trascritte da Henry Hardy, che ne curò un’edizione uscita una trentina d’anni dopo (The Roots of Romanticism, 1999) – Berlin racconta, citando chiaramente a memoria, un aneddoto su Novalis:
La fonte di Sorrentino non è direttamente Novalis, ma un’altra, indiretta e non dichiarata: il filosofo inglese Isaiah Berlin. In una delle sei famose lezioni sulle origini del Romanticismo tenute a Washington nel 1965 – lezioni registrate dalla BBC e più volte riproposte, e infine trascritte da Henry Hardy, che ne curò un’edizione uscita una trentina d’anni dopo (The Roots of Romanticism, 1999) – Berlin racconta, citando chiaramente a memoria, un aneddoto su Novalis:
When Novalis was asked where he thought he was tending, what his art was about, he said ‘I am always going home, always to my father’s house.’ (p. 104)
La citazione ricorre esattamente
nella stessa forma con la quale è pronunciata da Jimmy Tree, che dunque non
cita Novalis, ma Berlin che cita Novalis, in una di quelle serie di citazioni
di prima, seconda e terza mano che fanno la delizia degli studiosi di
intertestualità. Il dato non ha alcun interesse nell’economia interna dell’opera:
questo Novalis apocrifo resta un Novalis autentico dentro l’universo di Youth, così come rimane autentico, anzi
ne esce rafforzato, il suo valore simbolico, perché la ‘casa’ resta non la casa
dell’infanzia ma l’idea di un’arte cinematografica come la si è imparata nell’entusiasmo
della gioventù, e la ‘casa paterna’ il tempio dei maestri coi quali si è sempre
inesorabilmente a confronto. Cambiare un titolo nella biblioteca
di Sorrentino, però, significa cambiare anche il sistema di riferimenti esterni.
Mi ha sempre sorpreso come i critici siano tanto rapidi nell’etichettare come “decadenti”
le prove di questo regista. Al nucleo delle caratteristiche formali, infatti, ho sempre visto proprio uno slancio verso la riflessione sulla natura e le forme del desiderio (spesso, chirurgicamente, in una condizione di intorpidimento) che, pur nelle sue realizzazioni più o meno post-, caratterizzate da
più o meno -ismi, è d'impostazione genuinamente e inequivocabilmente romantica. Le parole su Novalis con cui Berlin
continua la lezione da cui Sorrentino ha tratto la citazione di Jimmy Tree
potrebbero essere benissimo applicate anche ai suoi film:
This [la citazione sulla casa del padre] was in one sense a religious remark, but he also meant that all these attempts at the exotic, the strange, the foreign, the odd, all these attempts to emerge from the empirical framework of daily life, the writing of fantastic stories with transformations and transmogrifications of a most peculiar kind, attempts at writing down stories which are symbolic or allegorical or contain all kinds of mystical and veiled references, esoteric imagery of a most peculiar kind which has preoccupied critics for years, are all attempts to go back, to go home to what is pulling and drawing him, the famous infinite Sehnsucht of the romantics, the search for the blue flower, as Novalis called it. (p. 103)
L’esotico, il bizzarro, il fantastico, l’allegorico, queste storie
«simboliche o allegoriche, che contengono velati riferimenti mistici di ogni
tipo», sono «tutti tentativi di tornare indietro»: tentativi di dare un’espressione
artistica del desiderio, in tutte le sue forme, dalla più congelata alla più pura
alla più immorale. Lo si dice di un poeta romantico, lo si può dire anche del
cinema di Sorrentino. In fondo, è proprio questo il motivo per cui Jimmy Tree
infine prenderà la sua decisione definitiva sul personaggio che gli è stato chiesto di impersonare: il tempo trascorso ad osservare i
villeggianti ignari l’ha finalmente convinto che lui, artista che ha ancora una
carriera davanti, vuole rappresentare il desiderio, non l’orrore. Una lezione
importante e di cui far tesoro, tanto più in un’età come la nostra, in cui il
segreto è forse proprio riuscire a cogliere, tra il turbinio del kitsch e del terrore in diretta, un nocciolo di genuino mistero per cui valga ancora la pena raccontarci.
Laura Ingallinella
@lauraingalli
Laura Ingallinella
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