Bambini di ferro
di Viola di Grado
La nave di Teseo, 2016
pp. 249
Euro 18,00
Il romanzo di Viola Di Grado è un libro apparentemente
solido e strutturato: citando il titolo, si potrebbe definire ‘di ferro’. Eppure già dalle prime pagine il lettore avverte qualcosa,
una sorta di magma che pullula tra la sintassi e il lessico. La scelta del
narratore esterno concorre alla sensazione di meccanicità, ma, allo stesso
tempo, la nega. I fulcri portanti della narrazione, Yuki (educatrice che
imposta le emozioni, come fossero una lezione da imparare mnemonicamente) e
Sumiko (la bambina difettosa), diventano il riscatto e l’impossibilità di
imbrigliare la realtà: il loro rapporto, infatti, si sviluppa in una sfera
pre-razionale (o se si vuole sub-razionale), sotto la soglia dei comuni
rapporti.
Perché il comun denominatore tra le due protagoniste è il silenzio,
ovvero la comprensione che non ha bisogno della struttura del linguaggio, ma si
libera da esso mediante una sorta di empatia ‘difettosa’. Ne deriva un romanzo schizofrenico che racconta una storia,
servendosi non solo degli strumenti della narratologia tout-court (che la Di
Grado, ancora una volta, dimostra di saper maneggiare con maestria degna di una
scrittrice matura e navigata), ma anche della scienza e della mistica. In questo marasma, eccelle l’uso della lingua, che non si
perde, forte della freschezza di un’autrice che non ostenta la sperimentazione,
perché già la sua peculiarità di scrittrice giovanissima che sa celare la sua
maturità è la più ardita delle sperimentazioni.
Il titolo, Bambini di
ferro, esula dal classico uso del paratesto: diventa, bensì, la grande
provocazione, quasi una profezia. L’essere lapidario, privo di fronzoli
(aiutato anche da un progetto grafico lodevole e di grande impatto), è proprio
ciò che lo rende misterioso ed enigmatico. Solo in questo modo si può permettere al lettore di aprire
il libro senza idee precostituite, con il dubbio su dove si sta per
avventurare.
Tutto il libro è mosso dalla dinamicità, da questa paura dello
stare fermi: eppure non mancano le parti in cui si indugia sul dettaglio, che
diventa, tuttavia, una microdrammaturgia dinamica in un macrocosmo che rigetta
la stasi. Soltanto in questo modo, il romanzo strutturale e
strutturato (come si diceva in incipit) diventa l’ossimoro: chiunque,
progredendo nella lettura, può intuire che dietro il ferro si cela
qualcos’altro, un’interiorità urgente, che ha trovato l’espressione nella
scrittura. È chiaro, pertanto, come Bambini di ferro sia il trionfo dell’understatement:
altresì potrebbe essere associato a una figura retorica classica, il poliptoto;
solo alla fine, infatti, si comprende come i modi e i tempi di un’esperienza,
compiuta da quell’impersonale narratore, si ripetono, mutando genere, forma e
tempi, nella storia raccontata.
In Bambini di ferro c’è tutto: l’archetipo (la maternità),
l’infanzia, l’emozione e l’imbrigliamento di essa, la religione. Ma tutto
sottostà alla precisa logica di far emergere l’umano (magistrale è il Buddha
che, come gli dei greci, è mosso da passioni e fragilità, e non confinato in
un’intermundia in cui vige l’atarassia).
In un periodo in cui va per la maggiore l’avvicinamento emozionale al prodotto letterario, Viola Di Grado dimostra che si può movere, delectare e docere attraverso la negazione del sentimento, raccontando, cioè cosa succede meccanicizzando la creatura-spugna, il bambino. Un esperimento al limite dell’ardito, quindi, diventa un documento straordinario di una cultura e di una società, ma anche dell’uomo, inteso non più come animale sociale, ma come individualità. Rifiutandosi di legarsi a un genere (giallo, thriller, noir, cronaca) la Di Grado dimostra come l’interesse che la muove è la conoscenza diretta delle dinamiche di una società alienata e alienante, che non comprende che il guasto è la perfezione: arrivati all’ultima pagina, infatti, una sola domanda serpeggia nella mente del lettore, privato di ogni confine metafisico, spirituale e materiale.
Quale è il discrimine tra sano e difettoso? La Di Grado non dà una risposta: o meglio, decide di raccontare la sua personale visione, senza pretendere la condivisione, ma richiedendo a gran voce l’empatia. Perché, in fondo, questa giovane promessa della letteratura italiana non è trasgressiva: è semplicemente un’anima vagula blandula che scende in luoghi inconsueti, sperduti, freddi, per ritrovare il calore più grande. Quello dell’umanità.
In un periodo in cui va per la maggiore l’avvicinamento emozionale al prodotto letterario, Viola Di Grado dimostra che si può movere, delectare e docere attraverso la negazione del sentimento, raccontando, cioè cosa succede meccanicizzando la creatura-spugna, il bambino. Un esperimento al limite dell’ardito, quindi, diventa un documento straordinario di una cultura e di una società, ma anche dell’uomo, inteso non più come animale sociale, ma come individualità. Rifiutandosi di legarsi a un genere (giallo, thriller, noir, cronaca) la Di Grado dimostra come l’interesse che la muove è la conoscenza diretta delle dinamiche di una società alienata e alienante, che non comprende che il guasto è la perfezione: arrivati all’ultima pagina, infatti, una sola domanda serpeggia nella mente del lettore, privato di ogni confine metafisico, spirituale e materiale.
Quale è il discrimine tra sano e difettoso? La Di Grado non dà una risposta: o meglio, decide di raccontare la sua personale visione, senza pretendere la condivisione, ma richiedendo a gran voce l’empatia. Perché, in fondo, questa giovane promessa della letteratura italiana non è trasgressiva: è semplicemente un’anima vagula blandula che scende in luoghi inconsueti, sperduti, freddi, per ritrovare il calore più grande. Quello dell’umanità.
Ilaria Batassa