di Amy Bloom
Fazi editore, giugno 2016
Traduzione di Giacomo Cuva
pp. 278
€ 18 (cartaceo)
€ 18 (cartaceo)
Veniamo subito al punto: Beate noi, l’ultimo romanzo della scrittrice americana Amy Bloom, in Italia pubblicato da Fazi ad inizio estate, mi ha lasciato non poche perplessità. Accolto con favore da pubblico e critica statunitense, ha dato il via ad una serie di recensioni positive quando non addirittura entusiastiche che ne elogiano l’originalità, la maestria dell’autrice nello sviluppo di una trama ricca di colpi di scena, immagini e personaggi eccentrici, la scrittura attenta e puntuale al servizio di una storia mai banale. Ora, pur riconoscendovi un innegabile grado di originalità e alcuni spunti interessanti, devo ammettere tuttavia che il romanzo in questione non mi ha convinta fino in fondo e le debolezze riscontrate sono a mio avviso troppo profonde per essere semplicemente ignorate di fronte agli entusiasmi della critica americana.
La trama, questo si, è piuttosto ricca e si sviluppa nello spazio relativamente breve di poco meno di trecento pagine, che scorrono velocemente, in un susseguirsi di situazioni, stati d’animo, voci ed ambientazioni, filtrate dalla voce della protagonista e punto di vista principale della storia. è l’America degli anni Quaranta, con tutte le sue complessità e contraddizioni, lo sfondo su cui sviluppare questa storia on the road, seguendo le protagoniste, Iris ed Eve, nel loro viaggio alla ricerca del successo, della stabilità, di una propria dimensione ed equilibrio. E la famiglia – disfunzionale, mancante, instabile – è il cuore del romanzo: due sorellastre, che improvvisamente scoprono l’una l’esistenza dell’altra e, nonostante caratteri ed attitudini diametralmente opposti, riescono in qualche modo tra le difficoltà a rappresentare un punto fermo in una vita traballante, incerta, dove la felicità sembra qualcosa di sempre più sfuggente.
Mi resi conto, lì nel loro ingresso, che quella ragazza aveva un mucchio di cose più di me. Fiori in vasi di cristallo grandi come secchi. Graziosi boccoli castano chiaro. La mano di mio padre sulla spalla.
Eva, principale voce narrante della storia, è una dodicenne solitaria, timida ed ingenua, che nei libri trova rifugio e consolazione; Iris, di pochi anni più grande, bellissima e spigliata, sogna un futuro da diva hollywoodiana e rappresenta per Eva tutto ciò che lei non potrà mai essere. Eppure, nonostante le profonde differenze, le tensioni, la lontananza, la sofferenza, Eva ed Iris saranno per sempre legate anche quando questo rapporto rischia di compromettere le personali speranze di felicità. Perché l’affetto che le lega è, forse, l’unico punto fermo: la prima, abbandonata dalla madre che, in un incipit folgorante dagli ovvi richiami alla short story – genere più volte frequentato dall’autrice – la lascia sulla soglia dell’elegante casa paterna per dileguarsi in fretta e in maniera definitiva dalla vita della figlia, e l'altra, rimasta orfana di madre e del tutto impreparata ad accettare una sorellastra della cui esistenza non aveva mai saputo nulla. Entrambe, in forme diverse, comunque senza una madre:
Ero in cerca di una madre come gli ubriaconi si dannano per trovare un bar. Alte, basse, italiane, nere. Desideravo soltanto una spalla morbida e salda su cui appoggiarmi, una mano ferma che mi indicasse la strada e mi preparasse la colazione.
E con un padre – di cui, pagina dopo pagina, si scopriranno tutte le mancanze e debolezze – incapace di allevare due ragazzine e garantire loro quel minimo di stabilità che cercheranno disperatamente per tutta la vita.
È per inseguire i sogni di successo di Iris che le due partono, improvvisamente, alla volta di Hollywood dove, tra feste, piccoli ruoli e lezioni, Iris vive il suo breve momento di successo, mentre la fedele Eva si occupa di lei, delle cose quotidiane, in una parvenza di normalità famigliare.
Non mi fido molto dei ricordi delle persone. A me sembra di ricordare alcune cose alla perfezione, alcuni momenti dei tempi dell’Ohio, per esempio, si ripropongono nella mia mente fin nei minimi particolari, altri eventi invece non sono altro che foglioline fluttuanti su un corso d’acqua. La memoria mi sembra difettosa, esposta al fraintendimento e fallibile quanto ogni altro pensiero o spasmo che ci attraversa. So che ai tempi non ero così giovane da poter usare la scusa della tenera età; direi che ritenevo di essere destinata al trionfo. Anzi, che il trionfo mi fosse dovuto.
Ma nemmeno Hollywood negli anni Quaranta sa perdonare lo scandalo di una relazione sconveniente e alcune foto compromettenti di Iris le chiudono improvvisamente – e forse in modo definitivo – le porte di quel mondo che brama di conquistare, rendendo necessario un altro viaggio, a cui si aggiungono questa volta anche il padre spiantato e un amico makeup artist che si è affezionato alle due giovani sfortunate, alla volta di New York dove reinventarsi una vita lavorando per una ricca famiglia di origini italiane e, per Iris, cercare allo stesso tempo di rimettere in piedi una carriera bruciata troppo in fretta. On the road, in un viaggio da costa a costa, tra motel e pasti frugali, sogni e inganni da orchestrare, la strampalata famiglia messa insieme cerca come può di far fronte a difficoltà ed imprevisti, in un mondo in cui tutto sembra ancora in qualche modo possibile.
Tra colpi di scena, successi e cadute, capricci e gesti avventati, flirt, amori, malattia, perdita, distanze e solitudini, la vicenda costruita da Bloom sembra strabordare, troppe cose restano solo accennate, mentre il filo della narrazione non sempre appare coerente fino in fondo. L’America degli anni Quaranta che si confronta con le contraddizioni dell’epoca, la II Guerra mondiale, il proibizionismo, il terrore rosso: sfondo storico sociale che resta sospeso, malamente integrato nella storia e non soddisfa del tutto il lettore. Ma anche il jazz, il glamour e l’eccitazione della golden age di Hollywood, le feste, gli scandali, che contrastano con la vita che le protagoniste dovranno reinventarsi a New York, la quotidianità, il lavoro, mentre Iris ancora disperatamente cerca di non arrendersi ad un’esistenza ordinaria; l’amore, l’omosessualità, lo scandalo, l’avventatezza che porta a compiere gesti destinati a cambiare per sempre le vite di tutti loro; la maternità, un desiderio disperato, la solitudine e l’angoscia, le estraneità all’interno di un matrimonio; la malattia e la vecchiaia, le responsabilità, la sofferenza, l’incapacità di superare un abbandono.
C’è tanto, troppo, in questo romanzo di Bloom che soffoca e fa perdere di vista l’essenziale, in un susseguirsi frenetico di scene, avventure, tematiche solo superficialmente accennate. Sarebbe bastato molto meno per rendere Beate noi quello che, in una recensione apparsa sul Corriere, Livia Manera ha definito un «romanzo d’intrattenimento alto» e che invece, a mio modesto avviso, non è del tutto riuscito, schiacciato dalla sovrabbondanza di temi e spunti non adeguatamente sviluppati, dall’insufficiente approfondimento psicologico di personaggi che rivelano la propria intima essenza nello spazio di un paio di scene e non si distaccano mai del tutto dalla prima impressione suscitata nel lettore.
Romanzo di formazione, potrebbe essere anche questo definito – anche se ultimamente sembra legittimo domandarsi quale romanzo, in fondo, non possa essere in qualche misura considerato erede o rivisitazione del Bildungsroman – , della ricerca dell’individualità e del proprio posto nel mondo, ma come si diceva poc’anzi ogni aspetto del carattere dei personaggi è già così evidente e fissato che è difficile immaginarne un’evoluzione o un cambiamento, nel bene o nel male, e il tono stesso della protagonista e narratrice principale, Eva, pagina dopo pagina appare monocorde, privo di slanci – ma forse, questo va riconosciuto, piuttosto adeguato al personaggio cui è associato – e incapace di toccare davvero il cuore del lettore, che non riesce a farsi partecipe fino in fondo della vicenda; si sorride, brevemente si riflette su difficoltà e cadute, tiepidamente si osservano crisi, infelicità e tentativi di trovare la propria felicità, ma, in fondo, l’opera della Bloom pur con i suoi innegabili punti di forza non convince del tutto e, per quel che mi riguarda, tradisce le aspettative – forse troppo alte – nei confronti di un romanzo acclamato in modo tanto inequivocabile dalla critica estera.
Non resta che provare a concentrarsi sugli aspetti più positivi dell’opera: il sapiente equilibrio tra comico e tragico su cui si regge la trama, quell'incipit folgorante quasi da short story cui si accennava in apertura, il senso di resistenza, determinazione e forza che pervade la storia e regala al lettore l’idea che, nonostante tutte le avversità, si possa dire “beate noi”. Noi, sorelle Logan, che siamo famiglia l’una per l’altra anche nelle avversità, che non sappiamo arrenderci nemmeno di fronte al crollo dei sogni e alla fine dell’amore, che disperatamente cerchiamo di costruire una famiglia, seppur strampalata, per superare l’amarezza della perdita e dell’abbandono.
Sai, la crisi passa, le asperità si sormontano, e siamo qui, leggermente migliori, ma non troppo cambiati.
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