Due eroi in panchina
di Roberto Quartarone
Edizioni InContropiede
Aprile, 2016
pp. 118
€ 13,50
"Libri così andrebbero fatti leggere obbligatoriamente nelle scuole". Qualche volta può capitare in effetti di pensare o di esclamare frasi del genere, soprattutto quando si è di fronte a volumi che, al di là del loro valore letterario, recano con sé un particolare gradiente emozionale, sociale e storico. Due eroi in panchina di Roberto Quartarone, uscito per i tipi di Edizioni InContropiede, è un libro esattamente così. Al di là della qualità di scrittura (comunque di buon livello), l'opera di Quartarone scoperchia una realtà abbastanza misconosciuta nel nostro Paese: ovvero il fatto che l'Italia (ma si parla anche di Europa in senso lato) dagli anni Venti alla prima metà dei Quaranta fosse molto meno provincialotta di quanto ce la saremmo aspettata, sempre e comunque in biblico tra commedia e tragedia e, inequivocabilmente segnata dalla scuola calcistica, ma non sarebbe errato definirla filosofica, magiara. In Italia, come nel resto del continente, il calcio moderno è stato inventato in Ungheria, spesso da uomini eccentrici, curiosi ed eroici proprio come Géza Kertész e István Tóth-Potya, i protagonisti giustappunto di questa storia.
Uscita com'è da più di cinquant'anni dai radar del calcio che conta, è difficile comprendere l'assoluta importanza che l'Ungheria ha rivestito per plasmare il calcio, per meglio dire l'idea di calcio, moderna. Infatti, basta scorrere le cronache e i libri che parlano di ciò, non solo per accorgersi di come non solo i più grandi giocatori e squadre provenissero dal Danubio (e dalle sue propaggini in terra austriaca/absburgica) ma anche e soprattutto gli allenatori venivano da lì: anzi si può dire che l'allenatore alla Guardiola, simbolo più contemporanea del calcio che piace, abbia avuto i suoi natali proprio lì. In quest'opera di riscoperta libri come quello di Quartarone o le narrazioni di Federico Buffa (che nelle sue indimenticabili Storie Mondiali, trasmesse su Sky, ha fatto molto in tal senso) sono un toccasana: perché hanno un linguaggio contemporaneo, accessibile a tutte le generazioni e raccontano storie così affascinanti e perdute, da appassionare seduta stante.
Ma di che cosa si parla in particolare in questo Due eroi in panchina? Si parla di vita e di sport, della vita nello sport di due allenatori (e giocatori prima, come da consolidata tradizione magiara) che rispondono ai nomi di Géza Kertész e István Tóth-Potya. Se è vero che oggi tali personaggi non sono molto conosciuti, occorre dire che per oltre trent'anni furono sulle bocche di tutti gli sportivi ed appassionati di calcio d'Italia e d'Europa, rappresentando (e con loro molti altri nomi illustri in tour per vari Paesi) l'avanguardia del calcio europeo.
Una delle cose che maggiormente balzano agli occhi leggendo le vicende di Géza e István è scoprire come allora, sostanzialmente da dopo la Prima Guerra Mondiale agli anni iniziali della Seconda, il campionato italiano di calcio, non solo la Serie A (divenuta a girone unico nella stagione 1929-30), ma anche le sue propaggini minori, rivestissero un fascino enorme per i migliori allenatori e giocatori di tutto il mondo. A metà strada tra la moderna Premier League (il campionato più ricco dei giorni nostri) e la Liga (dove giocano le squadre più forte), l'Italia era la mecca del calcio mondiale, il punto d'arrivo per tutti. Fu proprio così pure per Géza e István che, dopo aver raccolto buoni successi in patria, quell'Ungheria danubiana e magica culla del calcio, dovettero per forza di corsa mettersi alla prova, alla prova del nove, nel nostro Paese.
L'Italia, per entrambi, rappresentò tutto, a livello professionistico e sentimentale. Nelle pagine di Quartarone infatti si evince perfettamente come, anche se né Géza né István approdarono mai a squadre blasonatissime (a parte brevi esperienze nella Roma, nella Lazio e nell'Ambrosiana Inter), pur rimanendo quindi confinati nella provincia del calcio (da Catania a Trieste, da Salerno passando per Catanzaro sino a Bergamo), il pallone in Italia fosse affare serio, sia per mole di investimenti sia per seguito di pubblico.
Lo show-businnes applicato al modello calcistico insomma (quel misto di organi d'informazione, spettacoli ed eventi, coinvolgimento popolare e direzione nazionale, dato di fatto oggi), fu inventato nel nostro Paese, almeno a partire dal Mondiale casalingo del 1934 (ma anche prima). Géza e István lo capirono fin da subito e, specialmente il primo a Catania e il secondo a Trieste, elessero l'Italia a loro seconda casa. Ed allora qui si possono leggere tutta una serie di storie e storielle sul calcio italiano di provincia degli anni Trenta, tra presidenti vulcanici (è il caso di dirlo!), (poche) ingerenze del Partito e tanto, tantissimo affetto popolare.
Ma, come ogni storia che si rispetti (e quella narrata da Roberto Quartarone è storia perfettamente autentica), il lato tragico non va sottaciuto. Tanto è vero che, almeno dal 1938, l'annus horribilis della promulgazione delle Leggi Razziali, per i due allenatori magiari, così come per tanti altri loro colleghi, l'aria cambiò repentinamente. I due, sempre uniti ma divisi nelle carriere, decisero, più o meno nei medesimi anni, di fare ritorno in Ungheria, "isola grigia nel mare nero nazista", essendo il Paese sulle rive del Danubio formalmente neutrale. Tuttavia, e in guerra più rapidamente che in altre circostanze, le cose talvolta cambiano totalmente. Ed ecco allora che dal 1944, mentre l'ondata nazista andava sempre più stemperandosi in tutta Europa, in Ungheria (sempre l'eccezione che conferma la regola) invece aumenta. Si crea il ghetto di Budapest e le deportazioni della popolazione ebraica sono ormai all'ordine del giorno.
I nostri protagonisti, fino ad ora due "semplici" allenatori, decidono di diventare due eroi. Infatti prendono contatti con la resistenza ungherese e si trasformano in due patrioti che aiutano numerosi ebrei a mettersi in salvo o a fuggire dalle persecuzioni naziste.
Ahinoi, come accade talvolta per le storie vere, questa vicenda però non ha un epilogo felice. Infatti Géza e István verranno trovati dalle Croci Frecciate (il Partito Nazista d'Ungheria) e fucilati nel castello di Buda, pochi giorni prima che l'Armata Rossa liberasse la città.
Ma il punto non è questo, non è l'epilogo vero di questa storia. Infatti la vicenda di Géza e István è importante perché ci racconta come lo sport non sia soltanto metafora della vita ma sia anche un'utile, utilissima lente di ingrandimento per osservare una società nella sua essenza più pura, la vita quotidiana, i grandi fatti della storia e le piccole e innumerevoli vicende personali.
I due allenatori-eroi sono due uomini che incarnano quell'ancestrale momento storico in cui, per calciare al meglio una palla, si doveva volgere la testa al Danubio. E così come i grandi calciatori magiari non debbono uscire dalla nostra memoria, così anche i grandi allenatori di questo Paese. Un Paese che, se oggi vediamo troppo chiuso e ostile agli stranieri, ha una storia che parla chiaro: l'Ungheria, con la sua lingua tanto strana, i costumi un po' orientali un po' occidentali e i suoi grandi artisti, è il crocevia perfetto di un'Europa, anche calcistica, sempre moderna, attuale e, per forza di cose, crocevia di popoli.
Mattia Nesto