L'incendio nell'oliveto
di Grazia Deledda
a cura di Luisa Mulas
Ilisso, 2005
pp. 207
€ 11 (cartaceo)
€ 4,90 (ebook)
Dalla scranna antica che il lungo uso aveva sfondato e sbiadito, era ancora lei, la nonna Agostina Marini, quasi ottantenne e impotente a muoversi, che dominava sulla casa e sulla famiglia come una vecchia regina dal trono. Non le mancava neppure lo scettro: una canna pulita che il nipotino più piccolo aveva cura di rinnovare ogni tanto; buona per dare sulle gambe ai ragazzi impertinenti e per scacciare i cani e le galline che penetravano dal cortile; ma sopratutto buona per frugare nel camino, davanti al quale la nonna sedeva in permanenza d’estate e d’inverno, e specialmente per frugarvi quando era sdegnata con qualcuno, cosa che le accadeva spesso.
L’incendio nell’oliveto di Grazia Deledda
fu pubblicato su «La Lettura» - supplemento mensile del «Corriere della sera» -
a puntate, tra il giugno 1917 e l’aprile 1918, e uscì in volume poco tempo dopo
per i tipi di Treves, editore di tutte le opere di maggiore fortuna della
scrittrice.
Il romanzo racconta la storia della
famiglia Marini, della nonna matriarca, del figlio celibe, dei due nipoti
Agostino e Annarosa, della nuora Nina e di suo figlio, della serva Mikedda, del
servo e vicino di casa Taneddu, e della famiglia Mura (padre, madre e figlio
Stefano). L’anziana donna Agostina, dopo la morte del marito e del figlio maggiore,
aspira a dare in sposa la nipote al giovane e ricco Stefano Mura, ma Annarosa è
innamorata del povero Gioele. Il fidanzamento, tanto sospirato dalla matriarca,
sembra sempre più compromettersi quando la matura donna Nina, per ribellarsi
alla sua condizione di vedova, imbastisce un rapporto di complicità proprio con
il futuro genero Stefano. A peggiorare la situazione interviene una disgrazia:
l’incendio dell’oliveto, ultima proprietà di famiglia dei Marini.
Nei quattordici capitoli
che compongono il romanzo, la Deledda affronta con maestria una varietà di temi tra quelli a lei più
cari: dalla famiglia all’ordinamento sociale, dal confronto generazionale
all’amore, quest’ultimo scandagliato in più aspetti: da quello non corrisposto
a quello imposto, e da quello giovane e sincero a quello maturo e malizioso. Nel
romanzo, nonostante incomba minacciosa la scure della guerra, la terra sarda è quinta
immancabile dell’inesorabile divenire, cornice di paesaggi primitivi e di
ataviche atmosfere, come nel seguente passo:
“Nei momenti di silenzio si sentiva un usignuolo nell’orto: ed era tutta la frescura della notte sulla valle, l’ondulare degli olivi alla luna e il battere del ruscello al tronco del noce; e un pianto e un riso d’amore, un pianto e un riso di dolore, che tremolavano nel suo canto”.
Ambientato in una realtà
rurale e matriarcale, L’incendio
nell’oliveto ha per protagoniste le
donne, viste come dedali ineluttabili dell’essere umano e degli eventi primari dell’esistenza. Con forza e
autorevolezza, sono loro che guidano la famiglia, gestiscono la casa e si
occupano dei parenti, dei matrimoni e dei funerali. Attraverso gesti e simboli
rimarcano poteri e ruoli: Agostina, per esempio, governa tenendo in mano uno
“scettro”, una “canna pulita”, vero e proprio emblema del comando. Gli uomini, invece,
gravitano nelle scene con sommesso vigore, isolati e inadeguati al rispetto delle
regole e delle convenzioni: lo zio Juanniccu è il figlio strampalato, che tutto
osserva e tutto accetta con un’inevitabile fatalità; il nipote Agostino è un
mite custode e depositario della tradizione; e Stefano, seppur colto e
laureato, non è all’altezza del suo ruolo.
Il titolo L’incendio nell’oliveto – come ben
sottolinea nell’introduzione anche Luisa Mulas, curatrice dell’edizione – è poi
antifrastico rispetto allo svolgersi delle vicende del romanzo: il termine
oliveto richiama uno spazio ampio e aperto, mentre lo spazio della narrazione è
chiuso nelle quattro mura dell’abitazione e delle sue stanze; l’oliveto, poi,
non è mai oggetto diretto di rappresentazione, ma lo è solo nei discorsi dei
protagonisti. E anche la parola incendio rimanda a un fatto che è solo
descritto per sentito dire. Così ne parla la serva Mikedda con Annarosa:
Ha capito - le disse abbassando la voce. - La casetta è bruciata, e il fuoco è partito di lì. Gli olivi del lascito a Santa Croce sono stati i primi a bruciare, e il fuco va su e giù come quello dell’inferno”.
La trama del romanzo è lucida e salda, mentre la lingua dell’autrice adopera
un lessico in cui l’italiano è frammisto al dialetto sardo, ricreando sia il
parlato dialettale che costrutti proposizionali ricavati da traduzioni di frasi
in vernacolo. Le pagine della Deledda si susseguono con agilità e scorrevolezza,
impregnate di emozioni e agitate da venti e correnti contrapposte. Denso, soprattutto, sono
i brani dedicati ai luoghi, descritti senza tempo, permeati da tinte arcaiche e
da un’aura ancestrale, in cui i microcosmi compongono un mosaico
di immagini struggenti, di sentimenti autentici e di ritualità tracimanti.
Silvia Papa