di Ella Frances Sanders
Editore Marcos y Marcos, 2015
traduzione di Ilaria Piperno
pp.48
€ 15.00
Daniel Pennac, in Ecco la storia, un'arguta e metamorfica storia di sosia che, quasi fosse insofferente alla propria identità, diviene, nel suo procedere, metaromanzo, scriveva:
"(...) È vero ancora che Yasmina Melaouah, Manuel Serrat Crespo, Evelyne Passet e alcuni altri dei miei amici traduttori dubitano che "la finestra", "a janela", "das Fenster", "the window" o "la fenêtre" indichino esattamente la stessa cosa, poiché nessuna si affaccia sugli stessi rumori né si richiude sulle stesse musiche."
Con un solo, significativo periodo, l'autore fa riferimento alla refrattarietà della lingua a venire violata nelle sue più intime sfumature semantiche al fine di un'efficace trasposizione delle sue parole in un altro codice: tradurre è un po' tradire e gli addetti ai lavori lo sanno bene. Non basta un'ottima conoscenza del proprio idioma e di quello da cui si traduce: sono necessarie competenze specifiche sulla cultura che ogni linguaggio, ed ogni parola che lo compone, riflette; sulla letteratura che ne ha arricchito il lessico e ha contribuito alla sua evoluzione; sull'oralità attraverso cui ogni lingua vive e respira e continuamente muta. Non solo, occorrono sensibilità e intuito e possibilmente una buona vena creativa per non alterare troppo il testo originale e contemporaneamente rendere onore alla lingua in cui si traduce.
Inevitabilmente però qualcosa si perde: sfumature e, a volte, aspetti più macroscopici. Ogni popolo ha una propria storia, cultura, possiede usi e costumi differenti: la lingua ne ripropone aspetti peculiari e particolarismi, le parole come accurato specchio della sensibilità di una nazione (o di una porzione, anche minima, di essa), della sua economia, del contesto storico-linguistico, degli aspetti geografici e sociali. Queste differenze fanno sì che taluni lessemi, modi di dire ed espressioni non possano essere traslati e non solo per le differenze strutturali tra lingue ma perché, fondamentalmente, quel concetto, in un'altra lingua, proprio non c'è. Esistono, sì, parole in grado di renderlo, magari una perifrasi efficace con cui possiamo provare a descrivere ciò che s'intende ma, ciononostante, si tratterà solo di un'accettabile approssimazione. Un'espressione inglese, divenuta nota anche fra gli italiani meno "anglofili" grazie al bel film del 2003 di Sofia Coppola, esprime opportunamente la perdita di significato a cui si va incontro quando si volge il significante in un altro codice: "Lost in translation" ovvero, letteralmente, "perso nella traduzione".
Guarda caso – e non poteva esserci titolo migliore – essa identifica anche il volumetto illustrato, pubblicato da Marcos y Marcos, in cui Ella Frances Sanders raccoglie cinquanta parole intraducibili. Fa di più, cerca di restituire con una breve spiegazione ciò che ognuna di esse esprime e poi regala loro una graziosa veste: la grafia di ciascun vocabolo rivive come parte di un'illustrazione, quasi in un atto di devozione per la lingua a cui esso appartiene e per il senso, spesso così speciale, che reca con sé.
Sfogliando questo delizioso libricino potreste infatti scoprire di essere un "akihi", parola hawaiana che indica chi ascolta attentamente tutte le indicazioni per raggiungere una determinata meta e poi le dimentica un istante dopo. E vi sarà capitato molte volte, prima di affrontare un viaggio, di provare quel miscuglio di ansia ed eccitazione, paura e curiosità, che cresce esponenzialmente ogni minuto che trascorre arrivando al culmine quando è ora di lasciare casa e mettersi in movimento: ecco, lo svedese ha una parola per quest'emozione così difficile da descrivere – ma che, presto o tardi proviamo tutti – ed è "resfeber".
E ancora: avete presente quella pila di volumi che avete comprato e ancora attende di essere letta, esplorata, amata? Il giapponese ha un nome per i libri che la compongono ed è "tsundoku”.
E ancora: avete presente quella pila di volumi che avete comprato e ancora attende di essere letta, esplorata, amata? Il giapponese ha un nome per i libri che la compongono ed è "tsundoku”.
Il sostantivo arabo "samar", invece, indica la veglia prolungata sino a tardi, nell'incanto del dialogo e del racconto: il riferimento è a quelle conversazioni a cui l'intimità del buio e il silenzio del mondo circostante donano qualcosa di speciale, facendoci perdere il conto delle ore.
La sfilata di espressioni non finisce qui e, a ogni pagina scopriamo un termine per una sensazione che abbiamo provato o che proveremo, a cui è legato un ricordo, un amore, una persona, una solitudine. Altri vocaboli indicano invece un'abitudine o un'azione o un'unità di misura che la nostra mente non aveva mai contemplato (niente è più relativo del tempo e dello spazio) come ad esempio "poronkusema", in finlandese la distanza che una renna può comodamente percorrere prima di fare una pausa, o "pisanzapra", in malese il tempo necessario per mangiare una banana.
Un consigliatissimo volumetto che ci porta in giro per il mondo in un modo decisamente insolito: attraverso le parole usate dai popoli che lo abitano e scegliendo tra esse quelle che denotano le incolmabili distanze tra varie lingue e culture. Il messaggio che ne vien fuori è però positivo e consolatorio: la Sanders ci conduce attraverso un viaggio lieve e spensierato verso altri lidi linguistici, a volte molto distanti dal nostro ma sempre raggiungibili in virtù del fatto che ogni uomo che cammina sulla Terra ha vissuto e sentito, almeno una volta, emozioni comuni ai suoi conspecifici e, a dispetto dei diversi suoni con cui comunichiamo, questo ci rende innegabilmente, sottilmente, intimamente uniti.