di Grazia Deledda
a cura di Sandro Maxia
Ilisso, 2007
pp. 256
€ 11,00 (E-book € 4,99)
Affrontato per la prima volta, un romanzo di Grazia Deledda produce sul lettore lo stesso effetto di un altro grande classico della nostra letteratura, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Come in quel caso, si ha l'impressione di essere calati in una realtà radicalmente altra, misteriosa e lontana nel tempo e nello spazio, densa di tradizioni e di storia. L'abilità descrittiva dell'autrice e l'amore per il paesaggio sardo che traspare da ogni parola affascinano e trasportano all'interno della narrazione. La stessa precisione ritrattistica, caratterizzata da un'aggettivazione ricca e suggestiva, si ritrova del resto nella resa dei personaggi, sfaccettati e a tutto tondo.
Il protagonista, Pietro, è un giovane impulsivo, impetuoso, poco riflessivo: si abbandona a sogni, fantasticherie, pulsioni momentanee, ed è capace di gesti eclatanti come di piccoli momenti di tenerezza. Maria, con la sua bellezza sensuale e dirompente, sorvola leggera i propri stessi sentimenti, mutevole e lunatica come solo una ragazza poco più che adolescente può essere, in ogni epoca, in ogni luogo. Fin dall'inizio la storia si muove dunque tra passato e modernità, associando il rispetto per una cultura antica e fortemente connotata come quella sarda alla capacità di cogliere nei personaggi i tratti universali e senza tempo di ogni essere umano.
Il protagonista, Pietro, è un giovane impulsivo, impetuoso, poco riflessivo: si abbandona a sogni, fantasticherie, pulsioni momentanee, ed è capace di gesti eclatanti come di piccoli momenti di tenerezza. Maria, con la sua bellezza sensuale e dirompente, sorvola leggera i propri stessi sentimenti, mutevole e lunatica come solo una ragazza poco più che adolescente può essere, in ogni epoca, in ogni luogo. Fin dall'inizio la storia si muove dunque tra passato e modernità, associando il rispetto per una cultura antica e fortemente connotata come quella sarda alla capacità di cogliere nei personaggi i tratti universali e senza tempo di ogni essere umano.
La relazione tra Maria e Pietro è passionale, clandestina, destinata a bruciarsi nell'attimo: se l'uomo ama senza riserve e progetta un futuro condiviso, la giovane ambiziosa sa fin dal principio che per lei si prospetta un destino differente, un matrimonio più conveniente, una vita più comoda di quella che potrebbe offrirle l'umile amante; con Francesco Rosana, concittadino benestante e da tempo ammiratore fedele, le cose sono semplici e immediate:
- Ma insomma, credi o non credi?
- Credo in te, Maria, e vado dove tu vai.
Questa galanteria le piacque molto; sì, certo, Francesco era grazioso e gentile. Da quel momento non si lasciarono più." (127).
Francesco non è l'amore, ma è la sicurezza, la stabilità, il benessere che la ragazza va cercando. Le nozze seguono sfarzose, e lo sposo scambia per pudore il velo malinconico che offusca lo sguardo della sposa, per una burla innocente un atto provocatorio del rivale offeso.
Il male, per Grazia Deledda, pare non essere un'entità facilmente riconoscibile o circoscrivibile. Il male è un miasma contagioso, che pervade lo spirito e la pagina, sfiora i buoni quanto i cattivi, non lascia intatto nessuno. Ci sono sintomi che dovrebbero essere colti e invece sono trascurati e crescono a dismisura; la malvagità è come il granello di senape: nasce minuscolo e si fa via via sempre più invadente, sempre più difficile da ignorare. Il male scaturisce dal fatto minimo e quasi inosservato: lo si nota solo quando ormai è troppo tardi, e le vittime sono sempre gli innocenti, condannati alla morte, oppure all'infelicità. La stessa distinzione tra innocenza e colpa, del resto, si fa labile ed evanescente: non è innocente Maria, che illude, tradisce i suoi stessi sentimenti, chiude gli occhi di fronte alla verità; non è certo innocente Pietro Benu, ma del resto la sua colpevolezza pare indotta e inevitabile, seppure mai giustificata. Gli unici senza macchia, soli poli positivi del romanzo e controcanto necessario dei due amanti, sono la cugina povera, Sabina, e Francesco Rosana: brutti ma buoni e sinceri, intelligenti ma ciechi troppo a lungo, ingannati e defraudati del loro diritto all'amore e al rispetto di chi glieli dovrebbe.
Maria intuisce a tratti la realtà delle cose. Pensando a Francesco, ricorda che "l'anima gli traspariva dagli occhi: vivendo con lui si diventava buoni e leali. Pietro invece bruciava dove toccava, portando con sé e spandendo intorno a sé la maledizione del suo destino" (244). Ma forse ormai il contagio è avvenuto, o forse piuttosto il germe era già presente in lei, inavvertito. Con un narrare a tratti lirico, a tratti espressionista, ma mai privo di forza, Grazia Deledda impone al lettore un monito durissimo. Quello che emerge dal romanzo è un invito all'attenzione, alla prudenza, un richiamo a diffidare degli eccessi, a non sottovalutare il pericolo di un male che ci circonda ma che, ancor più infido, può annidarsi dentro di noi, pronto a divorarci e consumarci dall'interno. La via del male può essere letto come un romanzo di formazione, ma un romanzo di formazione crudele: si cresce nel dolore, negli errori irredimibili, nella consapevolezza che ciò che è fatto non si disfa, che le conseguenze del nostro agire sono ciò che ci portiamo dietro e che ci cambia definitivamente. Ci sono momenti di gioia, di passione, di dolcezza. Ma su tutto pesa l'asprezza della vita, da cui non si scampa. Del resto aspro e dolce al tempo stesso è anche il paesaggio sardo, vero coprotagonista dell'opera insieme a Maria e Pietro.
Si esce annientati dalla lettura di questo romanzo. Affaticati, come dopo una corsa che non si è potuto interrompere fino al traguardo; dolenti, come dopo un lutto; si piange la purezza perduta come se fosse la propria, la mancanza di soluzioni come se ci si fosse trovati in prima persona in un vicolo cieco, il muro alto alle spalle, i cocci di vetro in alto, a ricordare con il loro baluginare al sole che non ci sono vie d'uscita. In questo sta forse la grandezza della Deledda: nel riuscire a parlare oggi come allora, nell'implicare direttamente il suo pubblico, nel non lasciargli scampo né riposo. Nell'indurlo a chiedersi, soprattutto, se quel male intimo, corrosivo e doloroso che ha incontrato nel testo sia davvero qualcosa che gli è estraneo.
Carolina Pernigo
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