Viaggio in Sardegna con Paolo Fresu nel diario fotografico di Gianfranco Mura
di Paolo Fresu
Prefazione di Paolo Rumiz
Traduzione inglese di Serena Evangelisti
Traduzione francese di Sophie Jankélévitch e Giuseppe A. Samonà
Foto di Gianfranco Mura
Filmati di Giorgio Galleano
Ilisso, 2012
pp. 256 + DVD
Il mio amico Marco, che è sardo (e per giunta nuorese) come me, mi ha insegnato un gioco, che a me pare frutto felice della sua intelligenza autoironica e che gratifica evidentemente il mio lato dadaista. Consiste nell’inventare un grande o piccolo evento, destinato a svolgersi nella nostra Isola, per poi elencare i suoi partecipanti illustri mixando a piacimento i nomi e i cognomi delle personalità “indigene” contemporanee più affermate nel campo della cultura e dello spettacolo (viventi e performanti, s’intende). Poi – come nella canzone – si sta in attesa…«per vedere di nascosto l’effetto che fa». Vale a dire: chissà se qualcuno si accorge che questi personaggi non esistono, che sono solo l’esito anagrafico di un collage originato da una celia purissima eppure capace di innescare riflessioni profonde sulla tanto discussa identità/questione sarda. Per esempio: se annuncio che Flavio Fois, con il suo nuovo romanzo Solo e impietoso, apre il Festival “Spiaggia Desertissima” – altrimenti disertato da Michela Soriga, Marcello Marras, Paola Murgia e Gavino Mameli – e magari aggiungo che il sodale Antonio Bandinu suonerà i silenzi, in quanti si accorgeranno che le generalità degli artisti elencati sono solo il frutto del mio taglia e cuci mentale? Sono proprio sicura che tutti capiranno lo scherzo? O forse la percezione un po’ indistinta dei personaggi made in Sardinia divenuti riferimenti obbligati, e anche un po’ interscambiabili, esiste davvero e non è priva di contraddizioni e malintesi, soprattutto per ciò che concerne il loro ruolo? E ancora: questa viscida saponetta, tanto mortale a scivolarci sopra, profuma solo di mirto oppure ne esiste una fragranza per ciascuna regione d’Italia? Ho pensato anche a questo, con umore un po’ incerto, sfogliando Paolo Fresu. 50 anni suonati: un libro bellissimo e prezioso che, con l’allegato DVD ricco di spezzoni e interviste, credevo (forse ingenuamente) che avrebbe fatto da “tappeto sonoro” a questa fine estate, e invece ha rivelato ben altri intrecci, ben altre trame, e ben più di un nodo.
Un po’ diario di viaggio, un po’ album fotografico, un po’ agenda in cui risultano annotati pensieri sparsi (oltre che luoghi, date, e orari del giorno e della notte), il volume edito da Ilisso alcuni anni fa è innanzitutto la testimonianza dei cinquanta concerti che Paolo Fresu, jazzista di fama internazionale, ha tenuto nell’estate del 2011 in occasione dei suoi cinquanta anni anagrafici (trenta dei quali passati a suonare in giro per il mondo). Cinquanta date consecutive in cinquanta località della Sardegna, con scalette e partner artistici sempre differenti (musicanti e non, italiani e non) epperò in luoghi prevalentemente non deputati alla concertistica; dalle carceri alle case sugli alberi, dagli ospedali alle spiagge, dai cortili alle stazioni ferroviarie: tutti luoghi con “una voce”, come ricorda Paolo Rumiz nella sua introduzione – una premessa tanto simile, come è stato notato, a una ballata, ma anche (è innegabile) a una vera e propria serenata. Un modo alternativo, ispirato, gioioso e generoso di cantarsi e farsi cantare “Buon Compleanno!” – verrebbe da dire – per cinque volte dieci, per ringraziare una terra madre e un pubblico onnipresente e, di conseguenza, per farsi dire GRAZIE PAOLO; in una delle foto scattate da Gianfranco Mura si legge, non a caso, proprio questa frase, scritta su uno striscione calato dalla galleria del Teatro Lirico di Cagliari nell’appuntamento di chiusura di un tour (con tutta evidenza anche de force) che ha avuto, in questa, la sua unica esibizione solista e all’interno di una prestigiosa sede istituzionale.
Grazie Paolo, dunque. Si. Certamente. Grazie – e adesso vado un po’ a memoria e cito a caso dal repertorio dell’uomo chiunque e dal frasario di un certo giornalismo culturale – «di essere l’artista che sei» e «di portare alto il nome della Sardegna in Italia e all’estero». Grazie «perché tu non te la dimentichi, la tua regione d’origine, e ci ritorni sempre». Grazie «perché sei il perfetto esempio di locale e globale». Grazie «perché ricordi al mondo che anche i sardi esistono, e sono capaci di fare grandi cose». Grazie… Grazie… Grazie… Una raffica di ringraziamenti, una vera e propria sventagliata che, a pensarci bene, si potrebbe rivolgere identica a se stessa (quando già non viene rivolta) anche ai sopraccitati Flavio Fois, Michela Soriga, Marcello Marras, Paola Murgia, Gavino Mameli e Antonio Bandinu… Perché non c’è dubbio che la Sardegna senta ancora il bisogno accorato (disperato?) di ringraziare l’artista di volta in volta incaricato di cavarla fuori da stereotipi che evidentemente sono ancora percepiti come tali, e dunque come aggettivi più che mai “squalificativi”. La cartuccera di questi ringraziamenti è sempre piena. Archiviata l’invidia per il sardo di successo, pare di capire che al giorno d’oggi ci si volga al sardo che fa fortuna – meglio ancora se nell’ambito delle arti – con la stessa fiducia deputata al Santino d’occasione e/o al Deus Ex Machina. E mentre io per prima non so risolvere la metafora tra cattolicesimo e paganesimo, mi rendo conto che qualcosa di già molto discusso, nei secoli dei secoli e con esiti e manifesti molteplici, riaffiora (riaffiorerà) sempre come un fiume carsico ogni qualvolta che l’indicazione d’origine venga affiancata, con un colpo secco, al bravo artista o intellettuale di turno.
Che sia forse l’esito di una cattiva coscienza (sarda, ma non solo), mi chiedo, questo guardare ai “creativi” quali colmatori di ben altre lacune? O non è forse la potenza dell’arte, quando questa è veramente tale, a scaldare e inondare di luce un qui – un altrove – altrimenti umido e buio? Riusciremo mai, noi gente del 5000 (questo, sì, d. C.) a non far gravare sulle opere e sui giorni di musicisti, cantanti, scrittori, poeti, teatranti, cineasti, pittori e scultori (anche i più esplicitamente impegnati e schierati) la responsabilità di redimere in toto un territorio che trova in altra “prosa” la vera scaturigine dei suoi guai? Non che questo non sia già accaduto; anzi, è vero esattamente il contrario. Ma chi o che cosa ancora applaudiamo quando andiamo a un concerto, a un reading, a un festival o a una sfilata di moda? Quanto mistero in un fenomeno epidermico come il prurito, che se trova sfogo nel battere delle mani non si palesa mai del tutto come malattia («qualcosa non va») o come reazione psicosomatica («va tutto bene, è stata solo la nostra immaginazione»).
Io, per la cronaca, a uno di questi cinquanta concerti c’ero pure. Di notte, all’interno di una chiesa, come evento inaugurale di un Festival di successo che si svolge ogni estate in un paese un po’ montano e un po’ lacustre al centro dell’Isola, organizzato da uno scrittore che mi piace ricordare soprattutto per la sua buona (o cattiva) scrittura: occasione di “gratitudine al quadrato”, in un certo senso, di cui però, e con sollievo, ricordo bene solo l’emozione delle note e delle voci. Tuttavia non sarà certo un caso, concludo, se il gioco inventato da Marco funziona solo con i nomi degli artisti sardi. Di politici, per esempio, nemmeno a nominarne le iniziali – guai! – quasi che anche questo nostro “Dadaismo di ritorno” avesse scelto sua sponte di occuparsi delle “cose” che davvero, e nonostante tutto, possono ancora contare. In Sardegna, come in ogni altrove del mondo. Quindi “Grazie, Paolo”, ma... per la musica: innanzitutto, e specialmente.
Cecilia Mariani