A pochi giorni dall’inizio di un nuovo anno scolastico, che promette cambiamenti e novità, abbiamo incontrato Paolo Mottana, professore ordinario di filosofia dell’educazione all’Università di Milano Bicocca. Ha insegnato Filosofia immaginale e didattica artistica all’Accademia di Brera e da anni si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia ed educazione. Come leggerete, ci siamo soffermati sulla “Buona Scuola” prima, e poi verso forme alternative di formazione post-universitaria.
Dopo aver dato una lettura al suo blog, che è stato una piacevole sorpresa, viene da chiedersi come l’autore e il creatore di “Controeducazione” veda la cosiddetta “buona scuola”. Quali pro e quali contro?
Dal mio punto di vista piuttosto radicale, la Buona Scuola non pone rimedio a quelle che sono le manchevolezze strutturali della scuola, che non riguardano solo problemi del personale, ma soprattutto l’esperienza educativa dei ragazzi. Come tante riforme precedenti, anche questa si occupa di aspetti periferici: niente di nuovo nella didattica, negli ambienti di apprendimento, e men che meno disegna nuova esperienza dell’insegnamento. La Buona Scuola si occupa di molti elementi che riguardano soprattutto la professionalità dell’insegnante; certo, è stato fatto qualche ristaurino poco significativo, ma sono piccoli recuperi necessari rispetto a ciò che era stato fatto prima.
In questo weekend a Milano terrà un doppio seminario all'interno di "Tutta un'altra scuola": nel primo incontro del 10 settembre, si occuperà di un’altra educazione possibile: quale rapporto stabilisce tra coercizione e libertà d’espressione creativa?
Su questo ho un’idea molto limpida e semplice: in generale, la coercizione nell’educazione è sempre sbagliata, ha a che fare con il disciplinamento, secondo cui dobbiamo obbligare qualcuno a fare qualche cosa perché non abbiamo altri strumenti. Siccome i ragazzi non nascono di per sé banditi, ladri o deviati da un punto di vista genetico, vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato all’origine se poi dobbiamo ricorrere a costrizioni. L’apprendimento funziona e diventa autentico solo quando qualcuno è sollecitato a fare qualcosa che lo interessa, o lo può interessare (ci si può appassionare anche dopo, anche se non molto dopo). La sensazione è che la scuola – purtroppo, per i meccanismi di cui parlavo prima – sia ancora e sempre un’istituzione basata sull’obbligo, impegnata a creare corpi docili perché in sé non riesce a proporre un’esperienza autenticamente appassionante, se non in rarissimi casi. I bambini e i ragazzi non hanno bisogno di una struttura disciplinare, devono disciplinarsi attorno a dei compiti che avvertono come significativi per loro. Non dico che non ci debbano essere fatica, sforzo, tenacia, frustrazione, ma tutte queste parole sono mezzi, non fini. Tutti siamo ben disposti a fare sforzi per sedurre una persona che ci piace o per imparare a sciare tolleriamo temperature incredibili, ma per una ragione: siamo fortemente motivati!
Per riuscire a interessare, le esperienze devono essere comprensibili e integre (non come avviene nell’assurda disgregazione delle discipline in tante diverse celle di saperi). Le discipline poi richiedono sforzo, ma io vi partecipo perché sono coinvolto, non per timore o per obbedienza: la disciplina è la peggiore medicina contro il disinteresse! Un insegnante autoritario può anche ottenere qualcosa, ma si tratta di un apprendimento non autentico, finto, e si vede… L’interesse dovrebbe nascere naturalmente in un ambiente d’apprendimento sano… Il problema è che la scuola attualmente è un posto d’apprendimento malsano, a cominciare dalla sua struttura, dai corridoi, dalle aule… Insegnare, oggi, è veramente complesso e un insegnante bravissimo, che vuole fare qualcosa di nuovo e di creativo, si trova a lottare contro i mulini a vento dei programmi didattici e di tanti dirigenti scolastici sordi. Non parliamo poi delle procedure di valutazione, che sono continuamente inoculate, per cui si vive sempre sotto la minaccia della sanzione…
Lei ha scritto molto anche in riferimento alla scuola diffusa (uscirà presto un libro scritto a quattro mani con Giuseppe Campagnoli, Manifesto della scuola diffusa): dove porterebbe i ragazzi per stupirli all’inizio dell’anno e aiutarli ad apprendere fuori dalle mura di scuola?
Per stupire non c’è bisogno di portare i ragazzi fuori dalla scuola; ad esempio, all’università io inizio i miei corsi con musica, immagini, cinema… Sono elementi a disposizione di tutti, che possono stimolare un primo interesse e poi portare il ragazzo a fare elaborazioni, pensieri successivi. Se avessi la possibilità (e spero che in futuro l’insegnamento preveda questo), vorrei non solo portare i ragazzi fuori dalla scuola, ma farei sì che l’apprendimento avvenga prioritariamente fuori… Il mondo è un’arnia di possibilità educative: tutto ciò che accade nella realtà autentica è interessante. Il problema è come riuscire a far sì che la società decida di nuovo di accogliere bambini e ragazzi all’interno di sé stessa, non recludendoli in luoghi protetti e separati da cui è difficile integrarsi nel mondo. I ragazzi devono esserci dall’inizio, partecipare alla realtà con qualcuno che li aiuti, con ambienti intermedi e una casa madre a cui tornare e riflettere; le occasioni di apprendimento sono fuori, nei bar, nelle imprese, nei boschi, nelle sale di prova del doppiaggio… Dovremmo portarli lì e lì farli imparare e poi tornare indietro e parlare delle esperienze apprese, facendo sì che da soli individuino i loro interessi e le vocazioni. Credo che i giovani debbano essere emancipati dal titolo abusivo di “minorità” (definizione peraltro tutta moderna) e tornino a essere “sangue vivo” come diceva Majakovskij. Il mondo attuale dovrà un po’ cambiare, certamente, gli adulti devono ritrovare il tempo per interagire (non devono restare solo gli insegnanti a farlo!) e anche coloro che lavorano nel mondo devono imparare a reintegrare queste risorse. Non temo di dire che anche i ragazzi possono essere impiegati in un lavoro: si badi, non come oggetto di sfruttamento, ma come occasione per dare grandi contributi di creatività; loro vedono cose che noi adulti non siamo più capaci di vedere. Anziché valorizzare queste loro potenzialità, li abbiamo messi lì a marcire, pretendendo che in futuro si uniformino a uno stile di vita di cui non sanno nulla. Poi ci stupiamo che i giovani siano in crisi e denunciamo la loro abulia, afasia, apatia e tante altre a- privative… Ma come potrebbe essere diversamente? La scuola è da sempre un’istituzione disciplinare, serve per formare individui ubbidienti, intimiditi da qualsiasi cosa, altro che individui autonomi o cittadini critici, come vorrebbe la retorica sterile da riformatori della scuola!
E come la pensa circa la tanto discussa alternanza scuola-lavoro, che è stata oggetto di discussioni anche molto accese lo scorso anno?
Bisogna stare attenti, perché i ragazzi entrino in questo mondo del lavoro con il giusto vaglio critico, che non vengano strumentalizzati da chi li vuole abituare a un’idea di lavoro come rendere un servizio agli altri; deve essere un rendere servizio a sé stessi, innanzitutto. Possono rappresentare occasioni importanti, se sfruttate correttamente e appieno, anche se attualmente la legislazione ultra-tutelante e protettiva impedisce molte esperienze extra-scolastiche. Ma a mio parere le esperienze dovrebbero essere tante, plurali, ricche, non solo orientate al lavoro o all’impresa, ma anche declinate verso il teatro, la musica, le religioni, il cinema… Basta mettere gli studenti in una situazione partecipativa in cui possano portare il loro contributo attivo, ed ecco che anche ragazzi del riformatorio provenienti da famiglie disgregatissime possono diventare un perno, perché sanno fare molte cose e possono rendersi utili anche in una comunità.
Didattica e digitale: a suo parere, più che il sapere nozionistico prenderà piede l’arte di saper ricercare tra le fonti giuste? Quanto peso avrà il senso critico?
La questione delle tecnologie (digitali o meno) è una questione vecchia come il mondo: come ogni strumento, può portare miglioramenti o disastri. Più che l’utilizzo delle tecnologie, già perfettamente padroneggiato dai ragazzi, bisogna spiegare che cosa significa, che cos’è il digitale, che cosa simboleggia, da chi viene utilizzato, da quali poteri viene maneggiato. Se la scuola facesse questo, offrirebbe un grande servizio. Infatti, noi utilizziamo le tecnologie e siamo anche utilizzati a nostra volta, ma tanti non sanno che cosa che c’è dietro. Una volta conosciute queste dinamiche, i ragazzi possono imparare a fare delle cose, a creare: ci sono tantissime risorse veramente stimolanti per montare video, comporre canzoni e musica, ecc. Sarebbe interessante che la scuola impiegasse la tecnologia per dar forma alla creatività, mentre in realtà lo strumento digitale entra nella scuola per sostenere sempre lo stesso tipo di apprendimento: non cambierà mai nulla se al posto del regolo usiamo la calcolatrice del computer. Se invece so quel che c’è dietro la tecnologia, posso portare i ragazzi a riflettere, oltre che a creare: allora si può affrontare anche un tema centrale nella filosofia di oggi, come quello dell’attenzione e della concentrazione: cosa vuol dire che la mia attenzione ad esempio è filtrata da questi strumenti telefonici, o che la mia visione della realtà è continuamente mediata da uno schermo? È chiaro che interrogarsi su questi temi porta allo sviluppo del senso critico.
Il 21 settembre si chiuderanno le iscrizioni per la seconda edizione del Master da lei ideato in Culture simboliche per le professioni dell’arte, dell’educazione e della cura: il Medioevo è stato l’età simbolica per eccellenza, ma anche oggi siamo attorniati e subissati da simboli, pur non rendendocene spesso conto. Quali obiettivi persegue il master e quali riscontri avranno gli studenti?
Il Master, pensato per un percorso post-laurea, pone al centro una dimensione culturale che è stata messa fuori gioco: la cultura simbolica, che non parla il linguaggio macchinico industriale ed essenzializzato che oggi (purtroppo) si tende sempre più a parlare; ricorre al linguaggio figurato, metaforico, simbolico appunto, che insegna a concentrarci sul significato delle immagini, su un volto, su un’architettura… Tutto ciò che ci circonda non ha solo un significato letterale, ma invia dei messaggi: purtroppo siamo atrofizzati in parte e dobbiamo riavvicinarci per recuperare la grande cultura simbolica. Non pensi che si parlerà solo di albero della vita o di mandala: anche la nostra contemporaneità è piena di grandi e piccoli simboli. Ad esempio, pensiamo al confronto tra la luce e l’oscurità: la nostra contemporaneità è detta “illuministica”, perché ha voluto far tacere la voce del buio, di ciò che ha una dimensione di mistero. Ma dobbiamo interrogarci, sapere che i campanili hanno un certo significato diverso dalle grotte e hanno a che fare col maschile e femminile, dominante e recessiva ecc.… Tutto questo è fondamentale per capire qualcosa del mondo, se no ci muoviamo come ciechi. Ogni cosa lancia dei messaggi: anche se noi li introiettiamo in maniera priva di coscienza, questi agiscono ugualmente. Immergersi nel percorso del Master vuol dire fare i conti con questo linguaggio non del tutto logico-razionale, che dialoga più con la nostra carne e la nostra sensibilità. Rifornendo il nostro linguaggio e allenando la nostra sensibilità (il master ha esercizi molto partecipativi) impariamo a orientare i messaggi che ci manda il mondo e a interpretare tutti gli aspetti simbolici della realtà, senza subirli passivamente. Questo corso prepara a una maggiore sensibilità simbolica rispetto a ciò che abbiamo intorno e dentro di noi, e poi coniuga questo con la lettura del mondo espressivo-artistico (musica, letteratura, arte…). Attraverso il sapere simbolico diventiamo più raffinati nella conoscenza del mondo e ne abbiamo un gran bisogno: si è mai chiesta perché impariamo molto di più da un brano musicale che dalla lettura di saggi di psicologia? I romanzi, la musica, i film lavorano sulla nostra interiorità ed è questo a cambiarci. Credo che se a scuola si coltivassero molto di più questi saperi, la popolazione sarebbe più colta, in senso profondo, e sensibile. I riscontri, poi, si vedono in qualsiasi professione: abbiamo un pubblico molto diverso, sia per formazione sia per provenienza professionale, ma tutti i partecipanti della scorsa edizione ci hanno dato rimandi molto positivi.
Vorrei terminare con una domanda un po’ provocatoria, però necessaria in un’epoca che mette continuamente in dubbio il sapere speculativo. Molti ragazzi si sono iscritti al primo anno dell’università, alcuni stanno ancora vagliando le possibilità: perché studiare oggigiorno filosofia?
Nel bene e nel male la filosofia è tra i saperi più vicini alla vita che abbiamo a disposizione. Non è un caso: tutta la nostra tradizione è stato il sapere primo, che precedeva tutti gli altri e ne conteneva le premesse. Poi dipende da che idea ci si fa della filosofia: se la si riduce alla storia della filosofia e dei pensatori, diventa un po’ un sapere separato dalla realtà. Invece la filosofia pone domande cruciali sulle grandi questioni esistenziali, e la si trova non solo nei classici della filosofia, ma in molti pensatori complessi, letterati, uomini di teatro, cineasti, pittori… Nel grande mondo della cultura simbolica c’è tanta filosofia, non scritta con linguaggio filosofico idealistico, ma con quello che amo individuare come uno sguardo filosofico. Allora la filosofia diventa una grande ricerca e noi abbiamo bisogno di imparare da figure vive, che hanno impersonato ciò in cui credevano, che non si sono limitate a scrivere enormi libri complessi e incomprensibili ai più. Per me la filosofia è questo: non ho manuali, ma maestri, anzi “mentori”, che devono essere considerati delle figure vive, perché non smettono di trasmettere.
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Intervista a cura di GMGhioni
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