Lettera a Dina
di Grazia Verasani
Giunti, Milano, 2016
pp. 160
Euro 14.00
Un’amicizia, un morbo, ma anche un legame ancestrale, che
beffa il tempo e ritorna prepotente, un ponte fra passato e presente che
sublima il corpo in una melodia ascoltata per caso: così potrebbe riassumersi
il libro di Grazia Verasani, Lettera a
Dina.
Animato da una sorta di corsa nella memoria, per acciuffare
al volo brandelli di ricordi, il romanzo sembra divincolarsi tra il detto e il
taciuto, tra il ricordo e il vivere, Il presente e il passato si mescolano in
un monologo popolato da fantasmi antichi e moderni che concorrono – e incorrono
– in una ricerca desiderata e rifiutata, sempre in biblico tra il vorrei e il
non vorrei.
Lettera a Dina è
un romanzo aperto a ogni probabile: se da un lato, pertanto, dice, dall’altro
nega.
Molti i fili che si intrecciano, i volti che appaiono a intermittenza, ma
tutti raccontati come frammenti. Ogni personaggio è vittima e carnefice di sé
stesso e dell’altro: si innesca così un meccanismo di repulsione/avvicinamento
che coinvolge il lettore in una spirale malata, al limite dell’allucinato.
Nonostante il racconto in prima persona, è Dina il vero
punto prospettico: l’empatia che la Verasani riesce a creare con questo
personaggio rende impossibile al lettore qualsiasi altro punto di fuga. A nulla
vale circondare l’io narrante di vita: l’assenza è più forte.
Solo in questo modo il vortice delle sedute di psicoterapia,
gli avvenimenti del presente, le ricerche trovano un senso compiuto, e allo
stesso tempo ambiguo. Dina non c’è, ma le conseguenze della sua presenza sono
prepotenti, al punto di sopraffare persino il qui e l’ora.
In apparenza Lettera a
Dina potrebbe apparire il romanzo dei dualismi: comunismo/fascismo,
borghesia/proletariato, malattia/sanità. E, a una prima lettura, è così.
Ma scandagliando persino la grafica del testo si comprende
come la Verasani abbia celato un percorso a ostacoli, che, lontano dalla
formazione, è piuttosto una presa di coscienza all’inverso, del trionfo del
fallimento, di una sorta di esilio generato dalla propria stessa vita.
«Decido che mi prenderò cura di te» racconta l’io narrante:
ma il risultato è il presente, è la continua oscillazione tra un equilibrio
cercato eppure mai voluto fino in fondo, memore, forse, di quello che la sua coscienza
sta rivedendo. Memore di trentasette anni fa.
Il romanzo è animato da due spinte: l’idea del prendersi
cura e l’idea di fuggire da Dina («Ascoltavo in silenzio la sfilza delle tue
bugie e intanto pensavo solo a inventarmi una scusa qualsiasi per defilarmi»).
Sia nel passato sia nel presente queste pulsioni a metà fra il centrifugo e il
centripeto continuano a creare effetti, in una catena senza soluzione: è come
se il romanzo fosse blindato, sorretto da un cieco determinismo che si prende
gioco dei personaggi, del narratore, dell’autore, e dei lettori, che arrivano
in fondo titubanti.
Nel chiudere il libro, infatti, resta appiccicata addosso
una strana sensazione di incompletezza, come se non fosse stato detto tutto, o
come se fosse stata raccontata una bugia. Dina è morta per la legge e per il
mondo civile: ma c’è qualcosa che disturba questo pensiero, e che lo rende
irreale. Come se Dina non potesse morire.
E sarebbe riduttivo addurre la spiegazione che un
personaggio non muore se cristallizzato nella letteratura: c’è qualcosa di più,
ma che non viene detto, che si muove nell’ombre del percepibile, proprio come
Dina.
Ma Lettera a Dina
è anche altro: è il trionfo della scrittura come mnemoteca dell’io. È l’unico
strumento valido e infallibile per rendere il cronotopo a dimensione dell’uomo.
La lettera diventa non il mezzo di espiazione o di confessione, quanto il
filtro tra quello che non c’è e quello che c’è. Il presente lo si può vivere, è
davanti agli occhi, tra le dita; ma il passato è relegato in un altrove e gioca
a nascondino. È proprio questo il potere della scrittura: far emergere la memoria,
ma stando alle sue regole, accettando reticenze e omissioni, bugie e mezze
verità, confessioni e segreti. La Versani non impone il suo imprinting al
passato, bensì lo lascia fluire, quasi scarabocchiandolo sulla pagina. Solo in
questo modo il libro assume uno spessore e un’originalità: la trama di per sé
non è nuova, il linguaggio è al grado zero, neutro. Eppure Lettera a Dina è un libro che incanta e trascina, senza
spiegazioni: è come un disco rotto che ripete sempre la stessa meravigliosa
melodia, e dalla quale non ci si può allontanare. Un po’ come Dina.
Ilaria Batassa
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