Al ristorante.
Una storia culturale dalla pancia della modernità
di Christoph Ribbat
Marsilio, 2016
Traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli
Traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli
pp. 201
16,50 euro
Al ristorante di Christoph Ribbat, appena pubblicato in Italia da Marsilio Editori e in uscita in undici Paesi, somiglia in tutto e per tutto a una certa tipologia di ristorazione divenuta di moda negli ultimi decenni. Difatti, come alcune famose attività di preparazione e consumo di pasti in esercizi pubblici, anche il testo dell’americanista e docente presso l’Università tedesca di Paderborn non è ciò che sembra. Meglio: non è ciò che ci si aspetterebbe che fosse. A dispetto del sottotitolo, che promette Una storia culturale dalla pancia della modernità, il volume somiglia di più a una sessione di cucina molecolare presso il famosissimo El Bulli di Ferran Adrià: è, vale a dire, un’esperienza emozionale.
Pur organizzato in quattro sezioni che già dall’indice farebbero immaginare un comodo andamento cronologico, quanto mai utile per illustrare la storia del ristorante in quanto istituzione a partire dal Settecento – Orari di apertura, La fame nel dopoguerra, Il presente, Interpretare i ristoranti – il testo di Ribbat tradisce immediatamente le aspettative dell’“avventore”: questo, per oltre il 75% della lettura, avrà l’impressione di confrontarsi non tanto con la forma “saggio”, quanto con un esempio di virtuosismo narrativo tuttavia finalizzato all’analisi culturale nel suo senso più ampio. Meglio ancora: con una sceneggiatura o (direttamente) con un lungometraggio che intenzionalmente segua e abbandoni una pluralità di personaggi, vicende, contesti, riferimenti. Senza commento alcuno (ma con opportuni rimandi alle fonti in nota).
Suddivisi per brevi brani, intervallati l’un l’altro da un segno grafico raffigurante l’intreccio di una forchetta e di un coltello, ecco che si susseguono gli episodi e gli esempi più variegati aventi quale comune denominatore quello che si potrebbe definire “lo stile di vita del ristorante”, i cui protagonisti sono di volta in volta ricercatori “eretici” e studiosi di chiara fama, critici gastronomici e blogger dell’ultima ora, gentiluomini e gentildonne del Settecento francese e abitanti contemporanei delle discariche dell’Africa nera. E ancora: cuochi che hanno votato l’intera vita al mangiare e al bere e sguatteri desiderosi di sbarcare il lunario; camerieri (ma soprattutto cameriere) alle prese con uno dei mestieri più subdoli e simbolici dell’intero mondo delle professioni, scrittori raffinati sotto mentite spoglie, studenti al Fast Food, benefattori e criminali, ebrei e nazisti, emigrati e xenofobi. E nemmeno mancano – al contrario: sono ciò che determina l’esistenza stessa della ristorazione – i cosiddetti flâneurs, ovvero quei passeggiatori solo apparentemente distratti e senza meta precisa che nel loro vagare non perdono mai l’occasione di sostare laddove un aroma – ma anche un olezzo – ne catturi l’olfatto e, successivamente, il (dis)gusto.
Giunti al termine di una lettura che non può non risentire della struttura testuale – il cui montaggio alternato, frenetico e sincopato sembra rimandare al ritmo delle ordinazioni di un qualsiasi locale del mondo all’ora di punta – al lettore resta la sensazione di sapere qualcosa di più del concetto di “ristorante” non per averne appreso una cronistoria ragionata e rigorosa dal punto di vista accademico e metodologico, bensì per averne fatto un’esperienza quasi diretta e in prima persona. Nella conferma che il ristorante non sia affatto, o non soltanto, il luogo in cui si consuma un pasto a pagamento, Ribbat si rivela dunque abilissimo a dipanare mille fili ma a riavvolgerli insieme, e al momento giusto, attorno a quel fuso che trasforma il semplice bisogno della nutrizione, indispensabile per la sopravvivenza, nel prisma dei sistemi simbolici e di valore delle culture e delle società di ogni tempo e di ogni luogo.
Solo alla fine, dunque, si può apprezzare al meglio il senso dell’immagine scelta per la copertina, ovvero la riproduzione di Squisito al selz, opera del 1926 di Fortunato Depero, pittore di riferimento per la seconda stagione dell’avanguardia futurista che in quello stesso anno la espose alla Biennale di Venezia. Non tanto per un eventuale “amaro in bocca” lasciato dalla lettura, e sibillinamente evocato dalla scritta a caratteri maiuscoli BITTER CAMPARI, bensì per il dinamismo frenetico e la simultaneità di azioni e reazioni che fanno da sotto-testo al coloratissimo “quadro pubblicitario-non cartello”; un’immagine capace di riassumere nel contempo sia ciò che il ristorante rappresenta in quanto esperienza esistenziale e professionale, sia lo stile e l’andamento del volume, al quale l'autore sceglie di dedicare proprio uno degli ultimi passaggi del lavoro, che qui vale la pena citare per intero:
«il ristorante è un luogo diviso in zone pubbliche e zone segrete, che produce, oltre a pranzi e verità, anche leggende. Miti e finzioni gastronomiche si legano in modo inscindibile con le diagnosi sociali che cuochi e camerieri, critici e ricercatori elaborano all’interno dei locali. E non esiste modo migliore del montaggio per far percepire l’accostamento, che solo nel ristorante si può sperimentare, tra creatività culinaria o narrativa da un lato e lavoro duro, nonché realtà ancora più dure, dall’altro. I primi tre capitoli del libro legittimano questo disordine privo di commento perché ciò che interessa è la vita che si cela nei testi e non l’analisi dettagliata della loro origine, la struttura o attendibilità dei fatti avvenuti. Quasi tutti i documenti presi in analisi sottolineano il particolare dinamismo, l’intensità della vita nella ristorazione. Nel ristorante, uno dei centri focali della modernità, le esperienze bruciano. Il corpo lavora e gode in un modo particolarmente intenso e profondo. L’entusiasmo, la nausea, la gioia, la concitazione, il senso di appartenenza e di esclusione qui si percepiscono più che altrove. Per rendere viva questa intensità sono state sacrificate molte sottigliezze metodologiche. Il materiale doveva arrivare in tavola quasi crudo».
Cecilia Mariani