Elias Portolu
di Grazia Deledda
Ilisso, Nuoro, 2011
Prefazione di Leandro Muoni
pp. 176
cartaceo: 11 euro
ebook: 4,99 euro
ebook: 4,99 euro
Avvicinandomi a Elias Portolu, capolavoro deleddiano del lontano 1900, temevo che il mio personale “carico da novanta” costituisse un bagaglio troppo pesante da trasportare, un ingombro che mi avrebbe impedito di leggere un romanzo così radicato nella tradizione narrativa sarda (ma, direi forse meglio, italiana) e così profondamente moderno, con la giusta dose di distanza con cui ci si deve accingere ad analizzare un testo.
Una cosa molto simile mi era accaduta per “Interruzioni” di Camilla Ghedini, avendo inevitabilmente finito per riconoscermi dentro i ritratti di donna che la giornalista ferrarese dipinge.
Nel caso di Grazia Deledda ed Elias Portolu, il “carico da novanta” è costituito dalle mie origini (sono il frutto di una felice commistione tra identità sarda e fiorentinità) e da tutto ciò che l’Isola di Grazia (è proprio il caso di usarlo, questo sostantivo) ha rappresentato e rappresenta per me.
Mi sbagliavo.
Se è vero che avvicinarsi a Elias e alla scrittura piana ed evocativa della Deledda, acuisce certe nostalgie, risveglia ricordi di colori e profumi, in modo talvolta irresistibile, è altrettanto vero che questo romanzo è un tale capolavoro letterario da superare l’aspetto epidermico e finirti direttamente al centro del cuore razionale o, se vogliamo, dell’intelletto emozionale (e di ossimori ne riparleremo. Oh, se ne riparleremo…).
Della Sardegna, dei suoi rituali sacri, così come delle sue tradizioni pagane, dei suoi scorci suggestivi e delle immense distese della tanca della campagna nuorese (il terreno dove si fa pascolare il gregge) il romanzo è colmo, recando il segno di una nostalgia intensa di cui la scrittrice doveva soffrire, in quei primi mesi di vita romana, lontana dalla sua terra.
La Sardegna diventa protagonista del romanzo, quindi, e a essa Grazia Deledda regala pagine di puro e selvaggio amore, descrizioni di rara e accorata bellezza:
O, pallide notti delle solitudini sarde! Il richiamo vibrato dell’assiuolo, la selvatica fragranza del timo, l’aspro odore del lentischio, il lontano mormorio dei boschi solitari, si fondono nell’armonia monotona e melanconica, che dà all’anima un senso di tristezza solenne, una nostalgia di cose antiche e pure. (p. 59)
Accanto all’aggrapparsi nostalgico alla terra natia, che anima il protagonista, Elias Portolu, tornato a Nuoro dopo un periodo di detenzione carceraria in continente, questo libro, pubblicato a puntate nella Nuova Antologia nel 1900, e poi come romanzo compiuto nel 1903, è la virtuosa sintesi letteraria di tradizione e modernità, come ben sottolinea nella sua prefazione Leandro Muoni.
Un romanzo ottocentesco nel suo schema narrativo classico: un uomo s’innamora, ricambiato, della promessa sposa del fratello. Questa passione, a lungo soffocata, sfugge al controllo di entrambi, portandoli al peccato. Per redimersi, Elias decide di farsi prete.
Nel suo cuore semantico, nelle emozioni e nel dissidio interiore che Elias prova e che la Deledda non lesina nel descrivere, questo è però un romanzo estremamente moderno, addirittura contemporaneo e anticipatore, rivelatore.
Si può dunque leggere Elias Portolu collocandolo nella tradizione di una certa narrativa italiana (e, notar bene, non ho detto sarda, perché il premio Nobel nuorese «non è una sarda che ha scritto per i sardi, ma un uomo che ha scritto per gli uomini» come osservò giustamente Giuseppe Petronio): di stampo certamente verista, si può collocare accanto ai racconti verghiani e ai romanzi di Cesare Pavese. Dell’uno ricorda l’attenzione alle descrizioni della vita quotidiana, la capacità di riportare in maniera vivida, quasi cinematografica, ambienti e gesti di un popolo, accennando a un movimento, a un particolare casalingo, a una mimica tipica. Maddalena, per esempio, la cognata di Elias, ha quella malizia e quell'esuberanza quasi demoniaca che richiama subito alla mente la Lupa siciliana.
Dell’altro ha la profondità d’indagine psicologica che ci regala personaggi talmente veri, così carichi di sfumature, ombre e baratri interiori, che par di conoscerli intimamente, di esser stati noi, quegli uomini, in una vita passata.
E come non leggere, nell’accorato addio di Elias alle montagne di Lula, dove si è svolta la festa di San Francesco, una similarità con l’addio ai monti di manzoniana memoria?
Addio. L’assiuolo riprende il suo grido prolungato, cadenzato, vibrato nel silenzio infinito delle macchie. Nelle notti fragranti di lentischio, nei lunghi giorni luminosi, esso è il re della solitudine, esso solo impera, e il suo grido melanconico pare la voce sognante del paesaggio. (p. 78)
Eppure, forse proprio in questo elemento di vicinanza al romanzo classico, la Deledda dimostra la sua presa di distanza dalla tradizione. Se quello di Lucia è un addio colmo di limpida tristezza, potremmo dire, ai luoghi natii, all’infanzia felice, all’innocenza di sogni infranti, quello di Elias è il cupo accomiatarsi di chi partendo ritorna a casa animato da un cupo tumulto, da un fuoco di tentazione che è quanto di più lontano dall’eroina di Manzoni.
Ma, per guardare oltre e più nel profondo, occorre abbandonare tutte le numerose e affascinanti riflessioni sulla vicinanza o lontananza dalla letteratura classica.
Il modo più corretto di leggere Elias Portolu è quello di prendere il suo cuore narrativo e rivoltarlo al rovescio, come si farebbe con un calzino, come quando si infilano le mani e le braccia dentro le maniche di una maglietta: occorre arrivare al fondo, toccare tutta la stoffa e poi, con sicurezza, farla scorrere completamente all’indietro, in un unico gesto… E guardare cosa si nasconde dietro.
E dietro Elias Portolu, dietro il suo schema fiabesco con un eroe valoroso, un nemico da sconfiggere (la passione dolorosa per Maddalena), una serie di validi aiutanti (prete Porcheddu e zio Martinu), si cela il manifesto della fragilità umana. Lo si intuisce guardando all’abbondanza di espressioni ossimoriche che l’autrice elargisce per tutto il testo, laddove descrive il conflitto interiore di Elias: “triste piacere”; “amore e tristezza” ; “piacere angoscioso”; “una vertigine di piacere e angoscia”.
E la vedeva spesso, e la guardava, e istintivamente desiderava che ella se ne accorgesse; ed ella se ne accorgeva sin troppo, e incoscientemente corrispondeva ai suoi sguardi. E quando i loro sguardi si incontravano, un brivido, una sospensione di vita, una vertigine di triste piacere, li toglieva a sé stessi. (p. 121)
Elias è tutt’altro che un eroe, ci dice la Deledda. Gli eroi letterari (e quelli reali) sono finiti, sono scomparsi, dimentichiamoceli. Elias è un uomo, e come tale è debole, è arrabbiato, è confuso, è disperato, è meschino, è vinto. E in nulla il dissidio interiore di Elias trova pace, l’inferno della sua vita non ha redenzione. Non basta a Elias vestirsi di bianco, chiudersi in seminario, studiare le lettere di San Paolo apostolo. Anche un prete, scopre ben presto Elias, è un uomo. E la fragilità, la debolezza non trovano rimedio nel pentimento. Sono i tarli che affliggono l’uomo moderno.
Elias Portolu è, lo dico senza temere d’esagerare, il romanzo manifesto del Novecento, anticipandone in un certo senso le tragedie, gli orrori, ma anche le grandi innovazioni.
Tutto, tutto ha origine da quei tarli che, un giorno, sono entrati negli animi dei tanti Elias Portolu del mondo e li hanno condotti sulle strade dell'orrore. Ma anche della scoperta.
Tutto, tutto ha origine da quei tarli che, un giorno, sono entrati negli animi dei tanti Elias Portolu del mondo e li hanno condotti sulle strade dell'orrore. Ma anche della scoperta.
Barbara Merendoni