di Grazia Deledda
Ilisso, 2007
con prefazione di Susanna Paulis
pp. 176
€ 11 (cartaceo)
€ 4,90 (ebook)
«Melchiorre Carta saliva la montagna, ritornando al suo ovile»: si apre così Il vecchio della montagna, romanzo di Grazia Deledda uscito prima a puntate sulla «Nuova Antologia» nel 1899 e pubblicato l'anno successivo, in contemporanea ad Elias Portolu. Il primo personaggio che incontriamo non è il protagonista del titolo: è suo figlio, il cui movimento agitato anima il romanzo: come un novello Renzo manzoniano, Melchiorre è ingenuo e irruento, sa di amare la cugina Paska (certo, sente per lei un'attrazione selvaggia ben diversa dal ben più pacato amore dei Promessi sposi) e di non essere l'unico a godere delle sue attenzioni. Questo porta Melchiorre a salire con stizza la montagna che lo riporta al pascolo dove lo attende il padre, Pietro Carta, cieco, ma avvezzo a muoversi con la guida dei rumori della natura che conosce tanto bene. E altrettanto abituato a riconoscere turbamento nella foga del figlio: a nulla vale la sua saggezza; come Grazia Deledda postulerà anche in Il vecchio e i fanciulli, l'esperienza dei vecchi non vale più a nulla. In particolare, Pietro Carta è un eroe innocente, come rileva Susanna Paulis nella prefazione e come il lettore constaterà nel corso del romanzo.
Il triangolo amoroso tra Melchiorre, Paska e i suoi numerosi amanti si complica quando la ragazza illude anche il giovanissimo mandriano al servizio dei Carta, Basilio Serra: per amore, il ragazzino è disposto a tutto, anche a tradire il proprio padrone («Egli mentiva, ma gli sembrava di dire la verità; per far piacere a lei avrebbe calunniato suo padre», p. 116). Non si rende forse conto di quanto sia pericoloso diffondere in paese la voce (del tutto falsa) che Melchiorre sia un ladro e rivenditore di armenti: la notizia passa di bocca in bocca e arriva anche alla giustizia. In realtà, è proprio Basilio a rubare capi di bestiame e a nasconderli nella tanca dei padroni, lontano da occhi indiscreti: il suo fine è quello di riuscire ad accumulare rapidamente la ricchezza sufficiente a conquistare la mano di Paska, consapevole della propria bellezza e pronta a venderla solo al miglior offerente.
Profondamente deluso da questo aspetto dell'amata cugina, Melchiorre decide di rinunciare all'amore e di concedersi a Benturedda, ragazza tutt'altro che avvenente, ma di buona famiglia, e il fidanzamento sembra quietare parzialmente i demoni della passione:
«Paska era malvagia, era maligna e leggera, era una donna perduta: ma poiché ella non poteva più appartenergli come moglie, tutto questo non gli recava più ira né dolore.
Ricordava di lei solo la creatura bella e affascinante, che possedeva la malefica potenza di far perdere il senno a chi l'avvicinava: e in questo morboso ricordo si smarriva con l'angoscia nostalgica di chi ha la certezza di non poseder mai la persona amata. E la presenza di Basilio lo irritava maggiormente, sebbene sentisse che Paska si burlava di quel fanciullone come s'era burlata di lui, e che lo avrebbe ben presto tradito ed abbandonato» (p. 138)
Tuttavia, i lettori di Grazia Deledda sanno bene che la passione con le sue «ombre deformi come il lume dall'alto su quel fondo di scala» (p. 117) non sono facili da zittire. Mentre le pagine corrono e l'amore di Basilio «cresceva, rigoglioso come la vegetazione della montagna» (p. 133), così come i suoi risparmi, ecco che la giustizia fa il suo corso e arresta Melchiorre. La notizia sconvolge il vecchio Pietro, che vorrebbe farsi accompagnare dal mandriano in città, a Nuoro, per provare a muovere a pietà le guardie e far rilasciare il figlio. Quando, dopo il rifiuto di Basilio, il vecchio si accorge che in realtà il mandriano è partito proprio per Nuoro, ecco che il bastone d'oleandro accompagna Pietro Carta verso il suo destino. Nella prefazione succitata, Susanna Paulis mette a confronto il viaggio-espiazione di Efix in Canne al vento col viaggio di Pietro Carta: va però detto che Pietro non ha nulla da espiare, se non le colpe altrui. Mosso piuttosto dal suo ruolo di genitore e da un insonsabile richiamo, che ha molto di mistico e poco di razionale, il vecchio è convinto di scendere verso la città, e invece si scopre a salire un pendio scosceso che la sua memoria non ricorda e non riesce a collocare:
Qualche cosa d'arcano e d'irresistibile lo attirava: che cosa? Melchiorre, o il vuoto, il pericolo? (p. 162)
Poco importa che poi il romanzo scivoli verso un lieto fine; la caduta del vecchio in un precipizio, il dolore delle sue povere ossa rotte, i rumori della natura circostante muovono a pietà qualsiasi lettore e forse il romanzo finisce lì. Poi, certo, il sacrificio di Pietro Carta servirà a scatenare sensi di colpa, tentativi di espiazione in Basilio e i nodi narrativi si scioglieranno, ma questo viene dopo, quasi a margine. Perché negli occhi del lettore continueranno a passare i fotogrammi di Pietro, quasi crocefisso sulla roccia su cui è caduto, e non ci sarà «gioia selvaggia» (p. 151) altrui che potrà consolare.
GMGhioni
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