di Grazia Deledda
Ilisso, 2007
a cura di Dante Maffia
pp. 203
cartaceo: 11,00 euro
e-book: 4,99 euro
È il 1915 quando l’editore Treves di Milano pubblica Marianna Sirca. A quella data, la Grande Guerra sta diventando cronaca sempre più quotidiana anche per Grazia Deledda, che ormai da tre lustri abita a Roma, e – come opportunamente nota Dante Maffia nella sua Prefazione all’edizione Ilisso – non manca di intriderne di sangue la bella prosa. Non solo si assiste alla storia dell’amore impossibile, e destinato a un tragico epilogo, tra il latitante Simone Sole e la ricca possidente da cui l’opera prende il titolo, ma all’origine di tutto vi è proprio il lacerante conflitto – sia interiore che “esteriore”, e senza attenuante di “prigionia” – della protagonista femminile. Sarebbe in ogni caso riduttivo inscrivere il lavoro all’interno dei canoni classici dell’amour fou: quella di Marianna Sirca non è solo una sfortunata passione osteggiata da norme sociali e culturali, resa tuttalpiù etnograficamente accattivante proprio per via del contrasto tra il pedigree alto-borghese dell’eroina e quello delinquenziale del suo spasimante; il romanzo, in cui la complessa parabola passionale-sentimentale dell’elemento femminile della coppia segue anzi un andamento più materno che muliebre, è l’autopsia di un desiderio più psicologico che fisico, più trascendente che materiale: la storia di una donna che vorrebbe vivere la sua vita illudendosi di esserne padrona, e che infine non solo si arrende all’omicidio dell’amato, ma sceglie, simbolicamente, di suicidarsi a se stessa, andando in sposa a un uomo dal sembiante simile a quello del giovane bandito.
Tutto, nella struttura del romanzo, pare confermare il protagonismo assoluto di Marianna. Pochi i personaggi secondari, e quasi tutti di sesso maschile; uomini elementari o insignificanti, comunque incapaci di sostenere un confronto paritario con lei: dal padre, il bonario ma inetto Berte Sirca, al cugino Sebastiano, pretendente tanto ammaliato quanto arrogante; dall’innamorato Simone, bandito non privo di immaturità e vanagloria con «il petto bianco come quello di una donna», al suo compagno di latitanza Costantino, esempio di fuorilegge pio e devoto che nutre nei confronti del sodale un attaccamento morboso e non privo di sfumature omosessuali. Sullo sfondo, ecco ancora un mondo di obbedienti servi pastori e di criminali senza pietà, mentre le uniche figure femminili – la madre di Simone e le sue quattro figlie: bellissime, poverissime, destinate a non trovare mai marito – sono sagome lontane, quasi come la leggendaria banditessa Paska Devaddis, che Marianna sente però vicine in una drammatica e ideale “sorellanza”. Persino la serva personale della protagonista, la saggia Fidela, è dotata di caratteristiche androgine, dal momento che la sua stessa biologia di femmina si è come arresa in seguito a un trauma giovanile. Così anche quella di Marianna, che ha sacrificato la sua fanciullezza nell’assistere un vecchio zio prete del quale ha ereditato il patrimonio, non può che essere una femminilità atipica, tormentata e contraddittoria: repressa e risoluta, timida e ambiziosa, misurata e avventata proprio come l’uccellino in gabbia a cui la scrittrice non manca di paragonarla a più riprese.
Perché forse il dramma vero di Marianna, desiderata da tutti ma così naturalmente dignitosa e regale da mettere inconsapevolmente in soggezione anche i parenti più stretti, è proprio la sua inguaribile solitudine interiore. In una delle scene più patetiche, difatti, è proprio questa che sgorga – come altro sangue da una ferita che è vulnus ontologico ancora prima che esistenziale, e come tale non rimarginabile – nel corso di un confronto risolutivo con il cugino Sebastiano, un corteggiatore impossibile da ricambiare e la cui rivendicazione porta alla luce l’ottusità del volo controvento della giovane donna:
«Lasciami – gridò Marianna, presa da un’agitazione convulsa. – Nessuno mi vuol bene. Chi, chi vuol bene a me? E se qualcuno appunto mi avesse voluto bene, mi sarei buttata fra le braccia d’un servo? È la disperazione che mi ha spinto, perché ero sola come la fiera nel bosco… Ero sola… ero sola…– ripeté con un grido d’angoscia e spinse la serva, si staccò dall’uomo e tornò ad accovacciarsi nel suo posto accanto al focolare, singhiozzando».
Marianna Sirca, come acutamente nota ancora Dante Maffia, è un romanzo che inizia con il nome di Marianna e finisce con quello di Simone: un’attenzione onomastica, questa, che oltre a non essere affatto casuale per una scrittrice attenta ai “dettagli” minimi come la Deledda, può forse suggerire anche uno scoraggiante andamento circolare. Nell’accettare le nozze ufficiali con un uomo i cui occhi le ricorderanno quelli dell’amato, è come se Marianna ritornasse al punto di partenza: il matrimonio con un pretendente di buona famiglia modificherà, sì, lo status sociale della protagonista agli occhi della comunità (da nubile a sposata), ma ancora una volta essa si adeguerà a divenire ciò che gli altri vorranno che lei sia, a conferma di come l’artificio del proprio destino fosse stato solo il sogno (ben presto disilluso) di una fanciulla ingenua, troppo inesperta (e dunque subito ebbra) di vita. Se Simone è morto – e di morte e di sangue sono state le sue nozze con Marianna al cospetto di un sacerdote giunto a dargli l’estrema unzione mentre è preda dell’emorragia interna che gli sarà fatale – anche Marianna sopravvive solo apparentemente a se stessa e agli altri: il personaggio che si condanna a menare l’esistenza al fianco di un compagno che è l’ombra fantasmatica del suo unico, presunto amore, non sarà dunque di questo meno esangue, meno sbiadito e meno sconfitto.
Cecilia Mariani
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