di Stefano Tassinari
Edizioni Alegre, 2013
pp. 173
€15.00
Paolo è un cinquantenne, appartenente ad una “famiglia borghese
illuminata e un po' radical,
ma non chic”; negli anni '70 ha militato in un gruppo armato di
sinistra. Successivamente ha cambiato nome (si fa chiamare
Emilio) per nascondere il suo coinvolgimento attivo negli anni di
piombo e condurre una vita normale. Un giorno riceve una lettera da
una fantomatica Sonia che afferma di conoscere il suo passato e di
voler scrivere un libro su di lui. Paolo percepisce il pericolo: non
solo riportare a galla quegli eventi sarebbe destabilizzante per la
sua attuale condizione, ma Sonia (o chi per lei) potrebbe anche non
avere buone intenzioni.
Il protagonista non è pentito. Ha cambiato vita, si è
“omologato”, ora è addirittura un uomo come tanti, cui la
quotidianità ha riservato piccole delusioni (il rapporto fiacco con
la moglie, una normale incomunicabilità coi figli) e quelle che un
tempo avrebbe chiamato “contraddizioni secondarie”, da postporre
rispetto all'impegno per la “vittoria imminente”: dubbi,
ripensamenti, conflitto tra gli ideali collettivi e gli istinti
individuali. Col passare degli anni l'odio per il mondo intero
“si sedimenta e può solo addormentarsi in qualche inverno della
nostra velleità”, ma Paolo non è un ipocrita e non rinnega
ciò che ha fatto né cerca giustifcazioni a posteriori. Il punto di
vista è quello del rivoluzionario di sinistra, che ha conservato le
sue convinzioni; su di esse si è però depositato uno strato di anni
che ha sancito non solo la sconfitta pubblica di quegli ideali, ma
anche la ritirata privata dalla prima linea. Un percorso comune a
tanti giovani che in quegli hanno fatto politica attiva (senza per forza arrivare
all'estremismo o all'eversione) e che poi hanno dovuto in qualche
modo andare avanti, vivere nel mondo anche se esso li poneva di
fronte a soluzioni agli antipodi rispetto alla loro volontà. Per
quella generazione, forse più che per le altre, il percorso
individuale e quello collettivo sono stati simbolicamente
coincidenti: il conflitto tra la ribellione adolescenziale ed il
successivo adeguamento (almeno parziale) all'età adulta si è
rispecchiato nell'accettazione di non esser riusciti a cambiare
(radicalmente) le cose. Il potenziale manicheista delle scelte
politiche di Paolo è sublimato in una purezza espressiva e in
un'estensione di pensiero dovuta alla scrittura sopraffina di
Tassinari, che dona al suo protagonista un eloquio raffinato ed
incisivo, pacato ma determinato, potente.
Difendo l'unico periodo della mia esistenza di cui possa andare orgoglioso, e lo difendo con quell'istinto violento mai sopito, diretto contro i custodi della ragione, i controllori della morale – meglio se doppia
Chi manda quelle lettere? Qualcuno in cerca di vendetta? Una parte
dei servizi segreti intenzionata ad ottenere documenti scottanti?
Oppure si tratta di Alba, la ragazza che Paolo lasciò senza
darle spiegazioni per dedicarsi alla lotta armata e che da allora
rappresenta per lui il grande rimorso, la rinuncia ad un brandello di felicità personale e delle possibilità giovanili in nome
degli ideali? Nelle pagine che il protagonista riceve non ci sono minacce
esplicite, solo un sottile risentimento.
Le missive continuano ad arrivare, come messaggi cifrati corredate
da foto d'epoca: istantanee, fotogrammi di un film che Paolo rivede nella sua testa. Decide di tornare a Roma, la
città dove ha abitato e dove ha iniziato la sua militanza, per
cercare di venire a capo dell'enigma e per sciogliere i nodi del
passato. Si trova così a ripensare agli anni dell'impegno, alle sue scelte,
a ciò che provava e al modo in cui sono andate le cose; all'epoca ci si accalorava per questioni che ora sembrano minime, ma non è
forse vero per qualsiasi cosa creduta importante durante la propria
giovinezza? Il racconto di quel periodo è pieno del repertorio che abbiamo
già conosciuto attraverso i libri e i film, ma che la prosa di
Tassinari ci fa nuovamente fantasticare: assemblee, scontri in piazza,
lacrimogeni, raccolta fondi in solidarietà di cause terzomondiste,
Mato Tse-tung... e poi l'amore, quello di Paolo per Alba che prima della svolta rivoluzionaria del protagonista
partecipa con lui alle lotte e ai sogni condivisi da milioni di loro
coetanei. Seguendo il percorso politico di Paolo si passa dalle molotov
alle pistole, dai cortei ai colpi in banca, dall'attivismo alla
clandestinità. Lo scarto tra i giorni di guerriglia e il presente
dal quale si racconta quel passato serve a togliere alla narrazione
l'afflato eroistico che poteva insinuarsi nella rievocazione, ma ciò
dà anche la forza di essere onesti sulle convinzioni di allora e
soprattutto sulle azioni conseguenti a quelle convinzioni: esemplare
è il racconto della rapina finita male, quando Paolo ha assistito
agli ultimi istanti di vita di una sua compagna, colpita da un
proiettile sparato da un vigilante, ucciso a sua volta da Paolo. Il
protagonista rivive con lucidità quei momenti tragici, facendo
emergere sia il dolore per la perdita sia la sua contentezza nel
sapere di avere ammazzato l'omicida della donna, emozione
riportata con una sorta di leggera brutalità che colpisce come una
lama d'acciaio il lettore nella sua asettica chirurgia. Da una parte,
non avendo sensi di colpa, Paolo non deve cercare giri di parole per parlare
di ciò che ha fatto; dall'altra, essendo saldo nelle sue
idee, non ha bisogno di certa retorica rivoluzionaria
per ammantare le azioni compiute. Ciò che ne esce è un racconto “a
freddo” ma non privo di passione, uno sguardo interessante che apre
spazi che vanno riempiti dalle reazioni critiche dei lettori.
Per Paolo riandare con la mente a quel periodo storico significa anche fare
i conti con l'universo delle sinistre dell'epoca: lui, “compagno
che sbaglia”, rivendica quel sostantivo che lo qualifica e si
interroga sul motivo per cui gli altri compagni presero le distanze
anziché compattarsi nella lotta. Se tutti avessero oltrepassato la
“linea d'ombra” aderendo alla lotta armata, pensa ancora il protagonista, le cose sarebbero andate diversamente. "Perché non ci hanno seguito nel momento in cui lo scontro si è
fatto decisivo?": un'accusa forte alla sinistra istituzionale e ai suoi militanti; agli occhi di
Paolo solo quelli che come lui si sono dati alla lotta armata sono
stati all'altezza degli ideali di sovversione che proclamavano, gli
altri hanno dimostrato poco coraggio per passare ai fatti,
accontendandosi di giocare una partita tutto sommato interna al
sistema che dicevano di voler abbattere. Ma è coi fucili, e non coi
cineforum, che si fa la storia. Se col tempo Paolo ha leggermente
mutato idea (riconoscendo la sua identica passione anche in chi ha
scelto una via non violenta al cambiamento), le questioni che solleva
rimangono aperte e non possono essere ignorate da chi appartiene a
quella parte politica che ha nel suo albero genealogico l'utopia
rivoluzionaria.
Ma se, come sembra, le scelte compiute non turbano Paolo, che non
ha ripensamenti, cos'è che allora provoca il disagio che sta
provando dopo aver ricevuto le lettere? Il problema che non lo lascia in
pace, forse, non sono tanto i conti aperti col
passato ma, al contrario, il fatto che i conti lui li abbia
chiusi, non permettendo a quell'esperienza di filtrare nella sua
nuova vita, fingendo (dovendo fingere) che essa non sia mai esistita.
I messaggi di Sonia hanno squarciato un velo, costringendolo al confronto tra quell'epoca di speranza
ed il presente di disillusione malcelata.
Ripensando a quei momenti non so se infilare la testa nell'alone tiepido della nostalgia o se maledire con affetto l'esito di una passeggiata diretta contro un muro. La memoria gioca brutti scherzi, dice il proverbio, ma solo a chi la piega agli scopi del presente, aggiungo io. E il mio presente, fino a pochi giorni prima, lo credevo distante anni luce dal tramestio di un amore giovanile, dalle vampate di rabbia scaturite dal dolore, dall'epica confusa di una stagione morta. Ora no. Ora mi sento incerto sul divario che separa un ragazzo innamorato dalla vita da un uomo che la vita se l'è messa alle spalle, e perciò non so distinguere tra la voglia di eclissarmi e quella di ricominciare. Sono i due lati della medaglia, la stessa che porto sul petto di nascosto, con lo spillo infilato nella pelle da oltre un ventennio, come un segno di riconoscimento, piantato sul bisogno di non perdere del tutto la mia strada.
Paolo ricorda chiaramente il clima repressivo ed autoritatrio che
lo Stato imponeva in quegli anni, il pericoloso crinale lungo il
quale la fragile democrazia italiana ha vissuto a lungo: “Anche
per questo ho preso in mano un'arma, solo che oggi nessuno si ricorda
delle cause, ma solo degli effetti”; la problematicità di
questo discorso, espressa con l'onestà che è la cifra stilistica ed
il valore del romanzo, è che gli effetti di cui si parla sono morti
ammazzati.
Un punto centrale nella riflessione condotta da Tassinari che emerge con sempre più chiarezza riguarda
il giudizio sull'uso della violenza: se oggi non può che essere negativo
(e lo scrittore non si sogna minimamente di mettere in dubbio questo
assunto) è perché il mondo è cambiato e valutare il passato col
metro di giudizio contemporaneo rischia di cancellare il contesto
storico, fondamentale per ogni analisi, appiattendo tutto al presente
come se esso fornisse soluzioni (e morali) assolute. L'autore vuole invece con tenacia spiegare la violenza di quegli anni non limitandosi
ad una banale e rassicurante condanna emessa a distanza di sicurezza
da quei giorni.
L'amore degli insorti narra di un'epoca dissolta nel tempo, non nascondendo le contraddizioni di chi l'ha vissuta ma
rivendicando con forza la passione di chi ha lottato per un'utopia
che prometteva di “scavalcare il mare”. Tassinari è
limpido anche nell'illustrare le obiezioni a questa visione,
dimostrando fino in fondo che non gli interessa difendere qualcosa o
qualcuno, ma restituire a tutti i protagonisti di quel periodo
storico le loro ragioni senza demonizzarle ma anche senza edulcolarle e senza cercare una sintesi
impossibile, una pacificazione fittizia.
Qual è la morale di questa rischiosa incursione in territori così
minati? Forse ce la fornisce uno dei personaggi del romanzo, di cui non sveliamo
l'identità e che rappresenta la figura più vicina a noi lettori
estranei al clima di quell'epoca, col suo sofferto ma incessante
tentativo di capire.
Nicola Campostori