alba pratalia araba
albo versorio teneba
negro semen seminaba
Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne deus.
Cinque righe in una lingua arcaica a metà tra l’italiano e il latino, insignificanti ai più, ma fondamentali nello studio delle origini della lingua italiana. Chiunque abbia infatti frequentato una lezione di linguistica italiana, grammatica storica, filologia romanza o letteratura delle origini si sarà infatti scontrato con l’Indovinello Veronese, ad oggi ritenuto il più antico testo volgare italiano di natura letteraria. Per questa ragione è un caposaldo dello studio della lingua italiana.
Una piccola introduzione è qui d’obbligo. Le poche righe (due, sul foglio del manoscritto) sono state notate da Luigi Schiapparelli per la prima volta nel 1924, sul recto della pagina 3 del codice LXXXIX, conservato alla Biblioteca Capitolare di Verona. La storia del manoscritto però è più lunga e complessa. Si tratta di un orazionale, un testo liturgico, di origine spagnola, redatto in una città della Spagna all’epoca (siamo attorno all’inizio del VII secolo) sotto dominio arabo. Dopo la Spagna il codice viaggiò in diverse città italiane (Cagliari e Pisa come attestano le annotazioni) per giungere infine a Verona, dove un copista ad oggi ignoto, aggiunse queste misteriose righe. Perché misteriose? Poiché fin dal suo ritrovamento molti studiosi hanno tentato di dare una spiegazione e una risposta alle varie domande che il manufatto suscitava. Chi lo scrisse? A cosa fa riferimento? Che lingua è? Fu una brillante laureanda, Liana Calza, a dare l’idea per una prima e valida interpretazione: il testo è un indovinello, dove l’azione della aratura dei campi è una metafora dell’azione della scrittura. I buoi sono considerati le dita delle mani, l’albo versorio la penna d’oca e il negro semen le lettere nere lasciate sul foglio bianco.
Eppure questa interpretazione, per quanto plausibile, non convince tutti gli esperti del settore. Eccoci così arrivati a Teresa Ceccacci, dottoressa in Lettere e archeologa e al suo romanzo Il mistero del Codice Veronese. L’autrice avanza infatti in punta di piedi una posizione alternativa: e se le due righe non fossero lo scherzo di un copista, ma rimandassero a un messaggio più oscuro, a un enigma correlato alle teorie sulla creazione dell’Universo, che ha a che fare con la musica, il suono e l’armonia? Se non fosse stato un ingenuo copista ad averle scritte, ma qualcuno con una cultura più ampia e non del tutto canonica? Queste le timide ipotesi dell’autrice, che ha il merito di far emergere le dicotomie che suscita l’Indovinello e una strada alternativa ma senza alcuna presunzione, un’ipotesi di lavoro ancora aperta.
Per quanto supportato da basi scientifiche salde, Il mistero del Codice Veronese non è un saggio di linguistica, bensì un romanzo a tutti gli effetti. Sin dalle prime pagine ci si immerge in un’epoca altra: le descrizioni sono accurate ma non pedisseque e il risultato è un ottimo equilibrio tra volontà di inquadramento storico e piacere della lettura. Siamo a Verona, 802 d. C., e compaiono gli elementi alla base della narrazione. Un protagonista-copista con un segreto, un monastero, uno scriptorium, tanti manoscritti da miniare e copiare, l’arcidiacono Pacifico (personaggio storico realmente esistito) e il suo progetto di rendere Verona una città ricca e rigogliosa. Capitolo dopo capitolo il ritmo aumenta e il lettore è preso dalle vicende, sulle quali aleggia sempre un velo di mistero, ben calibrato dall’autrice.
Finzione e vero storico si uniscono e accanto alla narrazione di fantasia (alcuni personaggi sono infatti frutto dell’inventiva dell’autrice) si stagliano le descrizioni accurate del periodo storico, delle usanze del tempo, arricchite dalla presenza di molti testi originali a corredo del capitolo. Un buon equilibrio, un romanzo scorrevole, ben costruito, che ci riporta a un Medioevo che, da Il nome della rosa in poi, non è più così lontano.