Fai bei sogni di Massimo Gramellini l'avevo letto nel 2012, pubblicato da Longanesi, e mi aveva lasciato un'impressione dolciastra (leggi qui la recensione del romanzo). Mi era sembrato un libro emozionale, più che emozionante. Un libro rassicurante, tutto sommato, un libro “buono” come la faccia di Gramellini da Fazio. Un libro “simpatico”. Non mi aveva convinto del tutto, perché il dolore, a me, non è mai sembrato cosa da descrivere con simpatia, con la facilità con cui Gramellini lo metteva nero su bianco – anche se, diamo a Cesare il suo, aveva fatto un percorso, per riuscire a parlare in quel modo lì, di quel dolore lì. Mi sentivo un po' una che sbircia nel diario segreto di qualcuno, che però l'ha lasciato aperto sul tavolo della cucina. E quel diario mi raccontava la storia di un bambino rimasto orfano a nove anni, senza sapere la vera causa della morte di sua madre. L'avrebbe scoperta quarant'anni più tardi, ormai un uomo preda delle sue nevrosi, di una sorta di anaffettività paralizzante e attacchi di panico. Avrebbe anche fatto pace con l'idea che nessuno avesse avuto il coraggio di mostrargli il ritaglio di giornale che strillava “Madre si getta dal quinto piano”. Quando ho letto che Marco Bellocchio, il Bellocchio duro dei Pugni in tasca, de L'ora di religione, di Buongiorno notte, di Bella addormentata, dell'ultimo strampalato e lunatico Sangue del mio sangue, ne aveva tratto un film, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2016, sono rimasta stupita. Che c'entra Bellocchio, pensavo, con Gramellini?
Marco Bellocchio, durante la presentazione del film al cinema Anteo di Milano, lunedì 7 novembre, ha risposto alla domanda che, come me, si sono fatti in molti, parlando di una sua personale «via delle madri, fatta di omicidi e suicidi», un fil rouge che avvolge la figura femminile in un sudario ricercato o imposto, che di fatto è uno dei leitmotiv dichiarati della sua produzione. E in questa storia di grandi figure di donna ce ne sono ben due, la madre, archetipica, che sussurra al piccolo Massimo “Fai bei sogni”, prima di consegnarsi per sempre al regno del ricordo, e la donna di cui si innamora, una bella dottoressa che lo costringe, in un certo senso, a svelarsi.
Ed ecco che Bellocchio fa un film non gramelliniano, anzi una specie di controcanto al libro, che usa come canovaccio, estrapolandone il succo, plasmando la materia oscura. Un film sul (non)senso della morte e sull'insensato senso di colpa ingenerato dall'essere rimasti al mondo, e sul dolore di esserci rimasti soli. Prende il pretesto, il contesto, e sceglie Valerio Mastandrea per il ruolo di protagonista, lavorando in netta tendenza antimimetica. Ricostruisce gli interni di casa Gramellini a Torino, ma svuota di ogni patetismo la vicenda, la restituisce in maniera chiaroscurale, come la fotografia magistrale, vera protagonista di questo film, affidata allo strepitoso Daniele Ciprì. Usa la fotografia, la musica, il montaggio, per comporre singole scene iconiche, che mettendo da parte la storia, risultano forse le più riuscite: il fotografo spregiudicato (Pier Giorgio Bellocchio) compagno di reportage a Sarajevo che piazza il bambino che gioca ai videogiochi davanti al cadavere della madre prima di scattare, il cinico finanziere (Fabrizio Gifuni) che specula sulla sua stessa vita, il prete astronomo (Roberto Herlitzka) che offre la fede come unica risposta alla vastità dell'universo, il quadretto costituito da un figlio (Fausto Russo Alesi) che scrive una lettera a La Stampa dichiarando di fantasticare sull'uccisione della madre e una madre (Piera degli Esposti) che al momento della lettura di una risposta strappalacrime esclama soltanto, secca: “E adesso cosa dovremmo fare, abbracciarci?”
E le scene gemelle del ballo, quello iniziale con la mamma (Barbara Ronchi) e quello finale con Elisa, la donna di cui si è innamorato (Bérénice Bejo), in cui la goffaggine del bambino sembra non aver mai abbandonato l'adulto, a chiudere il cerchio. Usa dei quadri, dei ricordi, come fossero oggetti ritrovati in una casa vuota, cassetti che si aprono e si chiudono, facendo uscire fantasmi e mostri come Belfagor.
La morte descritta da Bellocchio è un jeu d'enfants. E la storia di Massimo è la storia di un bambino che gioca a nascondino con la morte riuscendo, alla fine, a farle tana.
Giulia Marziali
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