in

Lo schiavista: ho sussurrato "razzismo" in un mondo post razziale

- -
Lo schiavista
di Paul Beatty
Fazi editore, ottobre 2016

Traduzione di S. Castoldi

pp. 370 
€ 18,50 (cartaceo) 








So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte.
Un incipit folgorante, per The Sellout (letteralmente “il venduto”) di Paul Beatty, il discusso romanzo vincitore del Man Booker Prize 2016, premio per la prima volta assegnato ad un autore statunitense , da molti considerato tra i più importanti libri dell’anno. Premesso che personalmente sono sempre piuttosto diffidente nei confronti di etichette di questo tipo, è innegabile che l’ultimo lavoro di Beatty sia un testo potente, ricchissimo – dal punto di vista linguistico, tematico, strutturale – e in un certo modo necessario – si, altra etichetta di cui troppo spesso si è abusato – per cercare di comprendere complessità e contraddizioni della società contemporanea. Ed è, soprattutto, un testo destabilizzante: per la difficile categorizzazione, l’urgenza del tema trattato libero da costrizioni e limiti del politicamente corretto, l’uso della satira, la commistione di generi e registri linguistici. Un testo complesso, in cui la trama non lineare è in fondo l’elemento meno rilevante, in cui alle innumerevoli domande sollevate difficilmente corrispondono altrettante risposte, capace, si diceva, di destabilizzare il lettore, spingerlo ad interrogarsi oltre il velo di perbenismo che troppo spesso offusca il nostro giudizio, per guardare invece la realtà mediante un testo diretto, scomodo, la cui lettura è alleggerita dall’uso sapiente della satira e di una certa vena comica che riesce tuttavia a non sminuirne la portata sociale e politica, l’intento di denuncia. Nel farlo, Beatty rinuncia a scelte narrative rassicuranti, facili pietismi e trucchi retorici capaci di fare leva più facilmente sulla sensibilità del lettore, ma scegliendo una storia – raccontata per sommi capi – che sembra decisa ad abbattere ogni utopia dietro cui fino ad oggi abbiamo scelto di proteggerci. Perché nella vicenda del nero BonBon, cresciuto a Dickens il quartiere fantasma di Los Angeles, deciso a ripristinare il razzismo in un mondo post razziale, c’è il sogno infranto di un’integrazione mai davvero realizzata, l’utopia che si scontra con la realtà di una società incapace di fare davvero i conti con le proprie colpe, parlare senza retorica e perbenismo di razza, discriminazioni, odio, pregiudizio – non solo verso i neri, ma nei confronti di tutte le minoranze – e ammettere che otto anni di presidenza Obama, il primo afroamericano a ricoprire la più alta carica politica del Paese, non sono bastati – come potevano? – a colmare la distanza che ancora esiste tra neri e bianchi.
Ora capisco che l’unico momento in cui noi neri non ci sentiamo in colpa è quando abbiamo davvero fatto qualcosa di male, perché questo ci libera dalla dissonanza cognitiva di essere nero e innocente, e in un certo senso la prospettiva di finire in galera diventa un sollievo.
Scrivere un saggio o un romanzo di denuncia sarebbe stato probabilmente più facile: la linearità della trama, la forte tradizione letteraria su cui appoggiarsi – Toni Morrison, James Baldwin, Alice Walker, Ralph Waldo Ellison solo per citarne alcuni – e una struttura narrativa rassicurante per il lettore, sarebbero comunque valsi all’autore il plauso della critica e un certo successo tra il pubblico, come dimostra anche l’ultima, intensa, opera di Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, tra i testi recenti che più efficacemente riflettono sulla questione razziale; ma per chi abbia una certa familiarità con la scrittura di Beatty, appare evidente come il solo mezzo espressivo possibile per lui per raccontare una storia di questo tipo fosse proprio quello scelto, un testo di difficile categorizzazione, ibrido, fra satira, saggio e romanzo, in cui nulla sembra “intoccabile” e politicamente scorretto. Nemmeno Martin Luther King Jr, non di certo l’amministrazione Obama, non per un gioco alla sterile provocazione, ma con il chiaro intento di mettere in scena, tra situazioni surreali e battute fulminanti, uno spaccato delle più inconfessabili paure e contraddizioni dell’America di Obama: quella che ha eletto il primo presidente nero della storia occidentale, che per un attimo ci ha fatto credere il razzismo fosse tramontato, le colpe lavate, l’ingiustizia sociale, la violenza, il pregiudizio razziale definitivamente archiviati; ma anche la stessa America in cui un ragazzino può essere ucciso a sangue freddo, sulla base di paura e pregiudizio, da quegli stessi che dovrebbero proteggerlo e il razzismo sembra così profondamente radicato da rendere difficile qualche volta immaginare un tempo in cui davvero integrazione ed uguaglianza non saranno solo un’utopia.

La satira di Beatty, feroce, dissacrante, destabilizzante perché verosimile, ci ricorda che qualche volta la letteratura è ancora in grado di scuoterci, mettere in dubbio le nostre certezze, forte del fatto che il proprio compito non è rassicurare immaginando il mondo come un film con Doris Day, ma anche rappresentando la parte peggiore di noi e che oggi, dopo il clamore di qualche fatto violento che ci ha sconvolti per un attimo o due, siamo pronti a dimenticare presto, rassegnati al fatto che il problema è troppo radicato per essere davvero estirpato, pronti ad indignarci per la prossima causa, e così via. Un testo, si accennava, non privo di imperfezioni: un tema di per sé già estremamente complesso, la questione razziale, al centro di un libro ambizioso che qualche volta sembra soffocare sotto il peso di così innumerevoli spunti, argomenti, non tutti adeguatamente approfonditi; la prosa costruita su registri linguistici differenti e la narrazione quasi di richiamo modernista che è insieme punto di forza e limite dell'opera di Beatty. Non certo un testo di facile accesso, che richiede uno sforzo cui purtroppo tanta letteratura contemporanea sembra aver rinunciato e di questo, come lettori, non possiamo che rammaricarci, mentre pagina dopo pagina siamo invece assorbiti dalla complessità ed ambivalenza della prosa di Beatty, nelle innumerevoli chiavi di lettura di cui la storia è disseminata: la questione razziale, colonna portante del testo, ma anche il rapporto padri-figli, il peso dell'eredità storica, la ricerca della propria identità, la lotta contro l'ipocrisia del mondo.
E dimostra che la critica sociale è possibile anche mediante un romanzo come questo, imperfetto ma coraggioso, in cui l’elemento satirico e comico sono solo un aspetto di qualcosa di più complesso e che forse, si, qualche volta possono distrarre e confondere il lettore, ma la risata amara non ci allontana mai davvero dall’importanza del testo di Beatty. E, a mio modestissimo parere, a differenza di quanto sostenuto da Sameer Rahim in un articolo apparso sul Telegraph, l’elemento satirico è solo una delle chiavi di lettura possibili:

Beatty’s sharp humour challenges pieties from all sides, while never losing sight of the fundamental issue: America’s racism and the legacy of slavery. Intelligent and entertaining as it is, though, I’m not sure The Sellout adds up to a novel. It’s more a series of stand-up routines stitched together, the author barely drawing breath before the next joke. It’s exhilarating but exhausting. The reader is left little time to reflect and must largely do without the traditional pleasures of a novel – well-made characters and a consistent plot.

Proprio nella rottura con alcuni degli elementi caratteristici del romanzo tradizionale, la mancanza di plot lineare e personaggi ben strutturati, risiede a mio avviso l’originalità, la forza, del testo di Beatty, al punto da valergli se non l’immediatezza rassicurante della lettura – ma da quando il grado di accessibilità di un testo è diventato un valore assoluto? – uno dei premi più prestigiosi per la narrativa in lingua inglese. E, soprattutto, l’attenzione verso un argomento con cui siamo chiamati a fare i conti, anche quando questo ci costringe a mettere da parte utopie e finti buonismi. Beatty lo fa senza apparente timore, mediante la satira, il racconto-fiume, il romanzo-saggio o come più lo si voglia chiamare, nell’ironia amara di un protagonista che cerca di venire a patti con la propria identità, con le aspettative paterne che è incapace di soddisfare, con la perdita, il fallimento. Il confronto con una figura paterna ingombrante, le violenze, le delusioni, la difficile costruzione di una propria identità come figlio, come uomo, come afroamericano. L’identità nera, naturalmente, il punto centrale del testo, con tutto ciò che essa implica, tra difficoltà e sensi di colpa, eredità storica, pregiudizi:

Ma io non piansi. Pensai che la sua morte fosse un trucco. L’ennesimo piano complicato per farmi prendere coscienza delle tribolazioni della razza nera e spingermi a realizzare qualcosa nella vita. Quasi mi aspettavo si alzasse in piedi, si scuotesse la polvere di dosso e dicesse: «Lo vedi, negro, se una cosa del genere può capitare al nero più intelligente del mondo, immagina cosa potrebbe succedere a un deficiente come te. Solo perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più ai negri a vista».

Parliamo spesso di “perdita dell’innocenza” – e qualche volta a sproposito – ma ancora una volta ciò che destabilizza in questo romanzo è che nessuno sembra davvero, completamente, innocente: non certo la società americana rappresentata da Dickens, il quartiere di Los Angeles cancellato nel giro di una notte, non la polizia che con allarmante semplicità uccide un nero rispettabile per strada e che non troppo difficilmente immaginiamo resterà impunita, non la madre single che ha fatto tutte le scelte sbagliate per cui però non siamo sicuri ci sarà una storia di riscatto da scrivere, non il protagonista, un nero colpevole di aver voluto ripristinare la segregazione razziale e la schiavitù. Ma innocenza, in fondo, è una parola per cui non c’è posto in storie come questa, come a volte sembra difficile trovarvi un posto nel mondo reale.

E questo paese, questo omosessuale latente delle scuole superiori, questo mulatto che cerca di farsi passare per bianco, questo uomo di Neanderthal che non fa altro che tormentarsi il monociglione, ha bisogno di gente come lui. Ha bisogno di un bersaglio contro cui tirare palle da baseball, di un frocio da pestare, di un negro da calpestare, di un paese da invadere o contro cui dichiarare l’embargo.

Eppure, nonostante tutto, il libro di Beatty lascia spazio a mio avviso anche per la speranza. Non certo la speranza che sia attraverso mezzi tanto discutibili che il pregiudizio razziale possa definitivamente essere superato: ma speranza, intanto, nel potere della letteratura, che sappia ancora farsi militante, destabilizzare, scuotere dal torpore del perbenismo ipocrita; e speranza che mettere in dubbio le certezze, osservare i propri comportamenti in maniera critica e da una certa distanza, prendere atto delle piccole e all’apparenza banali discriminazioni che senza rendercene conto sono diventate parte del nostro quotidiano, della nostra mentalità, possa spingerci a cambiare noi stessi e il mondo là fuori.

“Non mi importa se sei nero, bianco, marrone, giallo, rosso, verde o viola”. L’abbiamo detto tutti. In teoria questa affermazione doveva dimostrare che la nostra visione delle cose era priva di pregiudizi, eppure chiunque di noi, se venisse dipinto di viola o di verde, sarebbe fuori di sé dalla rabbia. Ed è questo ciò che sta facendo l’imputato. Ci sta dipingendo tutti, sta dipingendo questa comunità di viola e di verde, per vedere chi ancora crede nell’uguaglianza.

Si, c’è speranza, secondo me, in questa storia, nella parole di Beatty che nonostante tutto non si rassegna, ci mette di fronte alla nostra vergogna, con ironia ed intelligenza: sta a noi, a tutti noi, prenderne coscienza e fare davvero qualcosa. E come quella parola impronunciabile che inizia per “N” ricorre così tante volte nel testo, finendo così per diventare inoffensiva, in modo simile guardare direttamente la realtà anche, soprattutto, quando è scomoda, è la chiave per trovare i mezzi adatti a cambiarla, davvero.