di Fred Vargas
Einaudi, 2012
Traduzione italiana di Yasmina Mélaouah
pp. 307
€ 12,00
Adamsberg amava i lupi come uno ama i propri incubi.
Nel Mercantour, da qualche tempo, vengono ritrovate pecore
sgozzate, sempre più vicino ai villaggi. La gente del posto sostiene
che sia opera di un lupo solitario, una belva come non se ne sono mai
viste. Lawrence è un documentarista canadese che si è innamorato di
queste bestie della zona e di Camille (non si sa in quale ordine) ed
ha deciso quindi di restare in Francia; di fronte alla minaccia di
una “battuta” per eliminare gli animali feroci che minacciano i
pastori, Lawrence farà di tutto per proteggere quelle bestie,
scontrandosi con la diffidenza degli abitanti di Saint-Victor.
“L’amore ti mette le ali per segarti le gambe”:
chi, di Fred Vargas, ha
già letto almeno L’uomo dei cerchi azzurri non può non
aver riconosciuto quel nome, Camille, come quello dell’antica
fiamma di Adamsberg; la classica donna perduta che ossessiona la
mente del commissario protagonista dei libri della nota autrice
francese. Anche in questo romanzo, come nel precedente, si ripeterà
l’eterno gioco dell’incontro e dell’addio che caratterizza la
strana coppia, all’insegna di un romanticismo delicato e
struggente.
- Perché la lasci agli altri?
- Al vento glielo chiedi, perché rimane sull’albero.
- Chi è il vento? Tu o lei?
Adamsberg sorrise.
- Ci alterniamo.
- Non è poi così male, giovanotto.
- Ma il vento se ne va – disse Adamsberg.
- E il vento torna, - disse il Guarda:
- E’ questo il problema. Il vento torna sempre.
A chilometri di distanza da quelle montagne al confine con
l'Italia, nella caotica Parigi, Adamsberg segue in tv il caso delle pecore uccise,
incuriosito dalla situazione. È d’altronde un uomo istintivo, che
si lascia trasportare da ciò che lo colpisce in elucubrazioni e
rimuginamenti che pian piano trasforma in idee compite
scarabocchiando incessantemente su un taccuino.
Adamsberg usava così il suo cervello, come un vasto mare fecondo nel quale hai riposto la tua fiducia ma che hai da tempo rinunciato ad assoggettare.
Alla diceria iniziale, quella di un grosso lupo solitario e
particolarmente efferato, si sostituisce presto un altro mito,
altrettanto arcaico ma molto più pericoloso: in paese c'è chi
comincia a sospettare che l'autore degli sgozzamenti sia sì un lupo,
ma un lupo umano, un licantropo. Nella favola, registro congeniale a
Vargas (che qui gioca evidentemente col big bad wolf), si
insinuano, filtrati d'ironia, elementi gotici: la paura che cresce
nel villaggio, il lupo mannaro come “uomo a rovescio” che
nasconde i suoi peli ferini all'interno del corpo. In una Francia
sospesa nel tempo, dove si può ancora credere all’esistenza di
mostri tra l'umano e il ferino, Vargas ambienta la sua fiaba che,
come quelle dei fratelli Grimm, ha la sua dose di violenza e
oscurità, nonostante il clima del racconto sia tutt’altro che
pesante.
Lawrence e Camille cercano di risolvere il mistero prima che il panico faccia compiere azioni sconsiderate ai
loro concittadini. Ma le cose precipitano e arriva la prima vittima
umana. Per tutto il romanzo l’unico sospettato è l’uomo accusato
inizialmente: l’ipotetico lupo mannaro, forse aiutato da un lupo
vero, forse da un cane di grossa taglia o forse da entrambi; il degno
assassino bizzarro per questa storia piena di figure paradossali. Ed
è proprio con due tipi particolari che Camille si imbarca in
un’avventura improbabile: a bordo di un carro-bestiame adibito a
piccola casa lercia e ambulante, la donna accompagna Soliman, figlio
adottivo della vittima (unico nero nel villaggio di Saint-Victor) che
conosce tutte le definizioni del dizionario a memoria e il Guarda,
vecchio guardiano di pecore che telefona ai suoi animali per sapere
come stanno; il trio, accompagnato dal cane Interlock, parte
all’inseguimento del presunto colpevole, mentre la scia di morti,
umani ed ovini, aumenta. Ovviamente le cose sono un po’ diverse da
come sembrano, ce lo si aspetta; come nel primo romanzo, dietro
l’apparente casualità delle vittime si nasconde un piano geniale e
diabolico.
Anche la storia d’amore tra i due protagonisti ha il sapore di
una favola, e ne L'uomo a rovescio conserva un cliché (che non svelo)
forse evitabile. In questo secondo libro Adamsberg e Camille si danno
il cambio: se ne L’uomo dei cerchi azzurri quest’ultima
era un’apparizione sfuggevole, quasi un fantasma che compariva in
rari momenti, ora è lei a presenziare costantemente nelle pagine del romanzo e il commissario, lontano dai luoghi dell’azione, è meno che
un comprimario: sarà dopo diverso tempo dall’inizio della storia
che ritroverà un ruolo da protagonista nel caso, affidato per la
maggior parte del tempo a Camille, che in seguito coinvolgerà
Adamsberg chiedendogli di aiutarla. Il loro incontro avviene a due
terzi del libro: se questa resta comunque una delle indagini di
Adamsberg, Vargas non lascia che il suo eroe fagociti il resto,
permettendosi di introdurlo solo quando desidera. Non è d'altronde
la sola libertà presa dalla scrittrice, che non bada alle regole del
giallo e procede incurante nella sua direzione letteraria; così, se
da una parte gli elementi dell’indagine rimangono, dall’altra la
sua prosa non si appiattisce agli stilemi del genere risultando
peculiare e inimitabile.
La trasferta di Adamsberg nel Mercantour impedisce il confronto spassoso tra il
commissario e il suo aiutante Danglard che, metodico ed
ultra-razionale, non si capacita della vaghezza del superiore, del
suo procedere ad intuito e del suo rincorrere dettagli marginali o
addirittura non inerenti al caso. Ma l'eroe di Vargas, pur perso in
un mondo di visioni e presentimenti, sa il fatto suo e dimostrerà
che, all’occorrenza, può essere un perfetto uomo d’azione.
- A nessuno sbirro interessa, - disse Adamsberg in tono leggero. - Ma a me sì.
- Per via dei lupi? I lupi di tuo nonno?
- Forse. E poi questa bestia enorme, questa cosa sbucata da un anfratto del tempo. E intorno a lei tutta quell'oscurità, sì, mi ha interessato.
Ne L'uomo a rovescio Vargas conferma la sua inclinazione
per protagonisti eccentrici, pensati tutti con intelligente umorismo
e gusto surreale: persone normali ma che dicono frasi strambe, che
forse non reggono sul piano dello stretto realismo ma che
costruiscono un altro tipo di verosimiglianza che più che mirare ad
una fotografia dell’esistente vuole rendere conto della variopinta
stravaganza degli uomini, osservata con uno sguardo affettuoso e solidale.
Nicola Campostori