di Don DeLillo
Einaudi, 2016
Traduzione di Federica Aceto
240 pp.
19 € (cartaceo)
19 € (cartaceo)
“Stavo pensando alle affermazioni che aveva fatto mio padre, una volta, parlando dell’arco della vita umana, del tempo che trascorriamo da vivi, i singoli minuti uno dietro l’altro, dalla nascita alla morte. Un periodo così breve, aveva detto, che potremmo misurarlo in secondi. Ed era proprio quello che avevo intenzione di fare: calcolare la sua vita nei termini dell’intervallo di tempo conosciuto col nome di secondo, la sessantesima parte di un minuto. Cosa mi avrebbe detto un simile calcolo? Sarebbe stata una pietra miliare, l’ultimo numero di una sequenza ordinata da mettere accanto alla caparbia marea di giorni e di notti, quello che lui era, quello che lui aveva detto, fatto e disfatto. Una sorta di emblema commemorativo, forse, qualcosa da sussurrargli nell’ultimo sprazzo di consapevolezza. Ma io non conoscevo la sua età, non sapevo quanti fossero effettivamente gli anni, i mesi e i giorni da convertire in uno strabiliante numero di secondi”.
Recensire Zero K oggi rischia
di produrre lo stesso effetto di una Besame Mucho malinconica suonata tra
i tavoli e le tovaglie a quadri di un’osteria di provincia maleodorante. Dopo
l’uscita dell’ultimo romanzo di Don DeLillo, si è scritto e detto di tutto, da
parte di chiunque, a testimonianza del forte impatto (un impatto
socio-culturale, verrebbe da dire) avuto dal libro che in Italia è stato pubblicato
da Einaudi. Elevato il rischio della ripetizione; piuttosto basse le
probabilità di arricchire un dibattito già prossimo al livello di saturazione. Ebbene,
proverò ad aggiungere un piccolo tassello, consapevole però che l’impresa è
comunque destinata al fallimento.
Leggendo Zero K ho
avuto l’impressione che questo DeLillo sia quanto di più prossimo, narrativamente
parlando, al William Faulkner di Mentre morivo e L’urlo e il furore.
L’accostamento al premio Nobel per la letteratura del 1949 dipende non soltanto
dallo stile, dal simbolismo, dalla densità e dall’epicità di cui è fatta la
pagina ma anche – questa è la ragione principale – dalla capacità dell’autore di
farsi mero intermediario di una storia che gli preesiste. Si è detto che con Zero
K DeLillo abbia voluto affrontare la trascendenza dell’essere umano di
fronte alla vertigine dell’assoluto, il problema di una metafisica futuribile
legata alla scienza, la morte, la vita, la religione, l’incomunicabilità. Tutto
vero. Con uno stile piano e regolare, frasi che sembrano pietre ben squadrate e
una sintassi meravigliosamente essenziale – da questo punto di vista
complimenti alla traduttrice italiana Federica Aceto, che ha fatto un lavoro di
resa straordinario – attraverso questo impianto stilistico, DeLillo, molto
semplicemente, ci propone una storia, ma non ce la offre indicandoci le
soluzioni, le chiavi di lettura, le spiegazioni. La mancanza di un
“approfondimento” di certe tematiche, delle quali resta come un’ombra in
superficie, ne è la testimonianza diretta.
L’algido Zero K
dimostra che oggi DeLillo è il portavoce di qualcosa che è prima di lui; niente
a che vedere con l’autore onnisciente che prende per mano il lettore e, passo
dopo passo pagina dopo pagina, lo riporta dalla mammina che aspetta in cassa.
DeLillo non è l’autore con la “A” maiuscola che, seduto in cattedra, spiega
come va il mondo, fornendo i significati ultimi e le intime connessioni causali.
Lo scrittore del Bronx non è niente di tutto questo: lavora per intuizione,
frase dopo frase, non ha un disegno in testa, non si prefigura lo sviluppo, il
filo si srotola quasi magicamente e la materia offerta è pronta a essere
oggetto dello sforzo meraviglioso e irriducibile della produzione di senso. Per
questo ritengo che Zero K – così come alcune opere di Faulkner – sia l’esemplificazione
di un modo “anti-autoriale” di raccontare una storia (una storia, non un
messaggio). Ed è forse a causa di tale approccio non convenzionale che
l’ultimo romanzo di DeLillo può risultare noioso, monotono, monocromo,
insignificante (non nel senso di ordinario ma di privo-di-significato). Forse è
esattamente così e sapete perché? Perché con Zero K la distanza tra
autore e lettore non c’è più; DeLillo è un tramite e il lettore – io, voi, noi
tutti – è chiamato a ricevere, rielaborare, immaginare e produrre mondo. Il
lettore ha la possibilità di diventare autore e questo – diciamolo – è davvero una
noia…
Per fortuna però esiste ancora
qualcuno a cui questa “noia” piace. Il plot di Zero K si attorciglia
come un boa equatoriale attorno alla figura di Jeffrey Lockhart, trentenne
americano che incarna alla perfezione il modello dell’uomo moderno
insoddisfatto, irrisolto, sempre in bilico tra un posto di lavoro e l’altro e rapporti
affettivi che non portano da nessuna parte. C’è un’immagine, però, o meglio un
ricordo che non lo abbandona: il giorno della morte della madre, Madeline, la
donna stesa nel letto priva di vita e la vicina di casa seduta su una sedia lì
accanto. Jeff da piccolo zoppica spesso, ma è una simulazione, lo fa per
attirare l’attenzione degli altri. Jeff ha l’ossessione di definire le cose, gli
oggetti, i sentimenti, le persone; una specie di ricerca perdurante e continua
dei significati che lo circondano. Ogni cosa, ogni persona, possiede la sua descrizione,
che è unica e irriproducibile. Definisci pelucco, definisci stampella. Mentre
la madre di Jeff muore, Ross, il ricco padre che da tempo se n’è andato di casa,
sorride dalla copertina di Newsweek. Il cortocircuito è innegabile e si
acuisce quando Ross invita il figlio in Convergence, centro operativo di studi
biotecnologici avanzati situato nel deserto del Kyrgyzstan. L’obiettivo del centro studi,
di cui Ross è uno dei principali finanziatori, è la crioconservazione dei
corpi, la sospensione dalla vita e la loro riattivazione in un futuro prossimo.
Tutti vogliono possedere la fine del mondo.
L’attuale compagna di Ross, Artis
Martineau è gravemente malata, sarà lei ad avviarsi per prima verso questa
sospensione di vita. «Vieni anche tu», ripete più volte Artis a Jeff. Ross
sembra voler seguire Artis ma non lo farà se non dopo due anni vissuti tra i
rimorsi e l’incrollabile fede in questa filosofia della sospensione del tempo che
precede un nuovo stato di cose. L’ambientazione del romanzo rimbalza da New
York a Convergence e accanto ai personaggi principali (Jeff, Ross e Artis –
quest’ultima protagonista di un flusso di coscienza in terza persona di rara
bellezza al centro dell’opera), DeLillo regala altre affascinanti figure – dalla
compagna di Jeffrey, Emma, al figlio adottivo Stack, ai gemelli Stenmark, il
Monaco e Ben Ezra – altri attori fondamentali di una narrazione che a tratti sembra
ricordare le atmosfere dei film muti.
Leggere Zero K è
un’esperienza che richiede coraggio. Malgrado si tratti in fin dei conti di
fiction, è quanto di più lontano si possa concepire dall’idea di una
letteratura di intrattenimento perché, più che risposte, Zero K fornisce
domande. Quindi forse è proprio questa l’essenza del romanzo di DeLillo, un’opera
che sa stimolare il quesito originario attorno alla funzione della letteratura.
Per rispondere leggete il
romanzo e poi osservate la copertina, la stessa sia della versione italiana che
di quella americana: un viso greco scolpito nel marmo, il viso di una statua
gelida e impassibile. È un’immagine anodina che ipnotizza – lo scatto è del
fotografo Jasper James – il volto privo di espressione di un essere umano fatto
esclusivamente di materia inerte e levigata. Che sia l’immagine riflessa di
ognuno di noi? Sia come sia, è l’immagine perfetta per la copertina di un
romanzo misterioso e bellissimo come questo, lo specchio di pietra sul quale si
riflette, trasfigurandolo, il viso del lettore, il grado zero della natura
umana, il livello primo della consapevolezza. Qualunque cosa voglia dire.