L'edera
di Grazia Deledda
Ilisso, 2005
Prefazione di Marcello Fois
pp. 208
Cartaceo, 11,00€
E-book, 4,99€
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Ho voltato l’ultima pagina de L’edera, ho confrontato Annesa e Paulu con Agnese e Paulo de La madre, e solo allora ho realizzato cosa significassero davvero le parole nell’introduzione di Marcello Fois, secondo il quale Grazia Deledda aveva in mente il progetto manzoniano di fare la letteratura in Sardegna. A questo ho potuto aggiungere altro addentrandomi nei meandri della psiche e dei gesti dei protagonisti de L’edera, realizzati a tal punto a 360 gradi da prestarsi perfettamente a una versione cinematografica che Augusto Genina ha realizzato nel 1950. Ho potuto affermare così che Grazia Deledda fonda con le sue opere una letteratura che è in grado di scavare nelle recondite pieghe dell’animo umano con quell’occhio critico, ma al tempo stesso empatico, che i grandi romanzieri possiedono approcciandosi alle loro creature letterarie, trascendendo luoghi e dinamiche con un linguaggio poetico, sì, ma che si nutre della vitalità propria della realtà. Attraverso i sentimenti di Annesa e Paulu ogni lettore si specchierà ineluttabilmente con la propria vita; la grandezza dell’autrice sta nell’innalzare una struttura narrativa che disvela verità assolute e immutate (sono passati più di cento anni dalla prima uscita su la «Nuova Antologia» nel 1908 ma l’attualità del contenuto risulta a tratti disarmante) con la dose di dolore e forza giusti a spingere a riflettere, senza però far dimenticare la componente narrativa: si pensa a se stessi ma si guarda con apprensione alla sorte dei protagonisti.
A Barunei, l’ennesimo macondo tipico deleddiano, cioè un luogo che ne ricalca uno esistente senza l’obbligo dell’esatta corrispondenza geografica (p.12), la storia inizia ancora una volta in medias res, irrompendo violenta nella vita del lettore, a partire da due misteriose sparizioni che danno il la alla vicenda. La prima è la scomparsa del figlio adolescente di Santus che ha deciso di andarsene in giro per il mondo, lontano da quella terra che tante volte Grazia ha descritto come oggetto dell’amore-odio provato da ciascuno dei suoi abitanti, tormentati dalla claustrofobia rurale ma legati ad essa, proprio, come un’edera. La seconda è una scomparsa immateriale, quella dell’antica gloria della famiglia Decherchi, tipico (e sempre più frequente agli inizi del XX secolo) esempio di nobiltà rurale decaduta, ancora possidente ma vessata da numerosissimi debiti. Per sbarcare il lunario, i Decherchi sono costretti a tenere in casa Ziu Zua, un lontano parente ricco, vecchio e malato ma disposto a pagare alla famiglia un contributo purché gli vengano assicurate le cure necessarie alla sua condizione. Ziu Zua destabilizza il già precario equilibrio di una famiglia in via di sgretolamento: se la prende con tutti, indistintamente, ma sembra accanirsi con più forza sulla giovane Annesa, proprio la ragazza che ogni giorno si prende cura di lui. Ma forse per la giovane queste vessazioni rappresentano l’ultimo dei suoi problemi, dato che il suo animo è dilaniato da un movimento inesorabile verso Paulu per il quale prova un sentimento marcio e malato, inasprito dalla condizione economica in cui la sua faniglia è costretta. PauIu è l’emblema del nuovo, della rottura del passato in apertura verso un futuro diverso, lontano dai vecchi e destinato ad essere consegnato ai giovani (un'eco del romanzo pirandelliano del 1913). Come superare questa lacerazione di sentimenti e di intenti se non con un estremo gesto, per lei che è:
Come l'edera; come l'edera che si attacca al muro e non se ne stacca più, finché non si secca. Io sono l'edera che non può vivere senza il suo tronco, ma qualora lo stessi soffocando, me ne staccherei, per poi riallacciarmici e coprirlo pietosamente. Pietosamente, poiché, il vecchio tronco, è ormai morto.
In una tragedia moderna in cui Annesa e Paulu diventano novelli Medea e Giasone, Grazie Deledda affida a L’edera un racconto a cavallo tra verismo e decadentismo, tra la documentaria registrazione dei sentimenti, scegliendo di riportare senza giudizio la cattiveria con cui la comunità osserva il lento decadimento di una famiglia, e la malinconica presa di coscienza dell’ineluttabilità del destino che gioca sadicamente con gli esseri umani:
Mai l'iniziativa umana è in grado di contrastare la volontà del destino; nè la ragione può presumere di penetrarne la legge.
Da un lato abbiamo Paulu debole, vigliacco, incapace, rispecchia la decadenza dei ricchi proprietari terrieri che hanno ormai fatto il loro tempo e non sanno rinnovarsi ma si piegano su se stessi e muoiono. Dall’altro c’è Annesa, piena di amore e di riconoscenza, con un gran bisogno di essere amata, che si aggrappa come l'edera alla famiglia che la ospita per la quale arriva fino al delitto per poi autopunirsi a espiazione finale della sua colpa. Due figure a tutto tondo e in egual modo problematiche, moderne in questa loro indefinitezza, inseriti con un perfetto equilibrio nell’economia del racconto che è un’unica, grande metafora: l’edera è una pianta che si attacca al muro che riconosce come il suo perfetto habitat in maniera così categorica che un distacco momentaneo o parziale non è possibile. O si rimane per sempre, o ci si stacca morendo. La Deledda dimostra, ancora una volta, di avere tante storie da raccontare e di volerlo fare con una sensibilità nuova e moderna.
Federica Privitera
Federica Privitera