Il nostro padrone
di Grazia Deledda
prefazione di Michela Murgia
Ilisso, 2009
pp. 255
cartaceo: 11,00 euro
e-book: 4,90 euro
Il nostro padrone è un romanzo scritto da Grazia Deledda nel 1910, al centro del quale troviamo quei temi tanto cari alla scrittrice nuorese, quali l'amore, la natura e, più di tutti, il Fato, mascherato da quel Dio imperscrutabile e distante che accompagna tutta la produzione letteraria dell'unica donna italiana vincitrice, nel 1927, del prestigioso Premio Nobel .
La vicenda ha inizio con il ritorno di Pietro Maria Dejana, vecchio possidente terriero che ha perduto la sua fortuna in seguito all'incarcerazione per un antico delitto, a Nuoro, che ci viene presentato fin dalle prime pagine ferito ad un piede mentre si dirige verso la dimora dell'amico fraterno Antonio Maria Moro.
La strada di Predu Maria si incrocia con quella del capo-macchia (cioè di un carbonaio che dirigeva il taglio dei boschi in Sardegna) toscano Aldo Bruno Papi, al servizio dello speculatore francese Perrò.
Di questi uomini, che sono due facce della medesima medaglia, la Deledda offe delle mirabili descrizioni.
Del primo, infatti, scrive:
"(...) Era un borghese, di media statura, grosso, vestito, modestamente, con un cappello a cencio e una vecchia cravatta attortigliata attorno al colletto molle di una camicia di colore. Sulle prime il capo-macchia lo credette un vecchio, ma esaminandolo meglio si accorse che nonostante la sua figura molle e i suoi capelli grigi l'uomo era giovane ancora e d'aspetto non volgare (...) e un'espressione di stanchezza, di debolezza, come nei vecchi grassi, faceva apparire ancor più molli i suoi lineamenti (...)".
A proposito di Bruno leggiamo:
"(...) Egli veniva di lontano (...) ma doveva conoscere i luoghi che attraversava, perché i suoi occhi azzurri, melanconici, velati da lunghe ciglia dorate, guardavano senza curiosità il paesaggio fuggente (...)".
La storia di Predu Maria ricalca quella degli eroi delle antiche tragedie greche: il suo sogno giovanile di prendere i voti si è infranto in seguito all'uccisione del patrigno Lurisincu, uomo vile e brutale, e così il suo temperamento passionale ed irruento è stato mitigato dal carcere.
Nei lunghi anni trascorsi a ripensare ai suoi errori, la sua fede si è rafforzata (tutti a Nuoro lo chiamano Gerusalemme) e quasi plasmata in un'idea deforme di penitenza, tanto che si è persuaso di dover ancora espiare i suoi errori sposando Marieléne, la serva del Perrò che era stata un tempo la sua amante.
Appreso che la donna sarebbe andata presto in moglie con una dote alquanto cospicua concessale dal Perrò, Bruno si è convinto che il matrimonio con ella sarebbe stato assai vantaggioso per la sua carriera, ed ha incominciato a farle una corte serrata, anche se ha conosciuto e si è invaghito della giovane e bella Sebastiana, della quale nella seconda parte del libro si innamorerà perdutamente:
"(...) In tre mesi ella s'era trasformata (...): il suo collo nudo, lungo, d'un candore azzurrognolo, e il viso ovale, tutto roseo, le labbra, i denti, i folti capelli neri divisi in due bande uguali, gli occhi turchini a mandorla, pareva mandassero al riflesso del lume raggi e scintille (...)".
Su tutti i personaggi, però, grava l'ombra oscura del Fato, che assume le forme di un Dio assai lontano da quello della Provvidenza manzoniana, come scrive Michela Murgia nella prefazione dell'opera: la Deledda, infatti, dà vita ad una presenza oscura, ambigua e imprevedibile, che assoggetta tutti gli esseri umani al suo volere e non ammette da loro alcuna disubbidienza.
Una Divinità, questa, che troveremo in tutte le opere della scrittrice barbaricina e che dona alle storie da lei narrate quel pathos e quella potenza evocativa propri delle tragedie greche, che diverranno la sua cifra stilistica e ci permetteranno di considerare i suoi scritti dei classici senza tempo.
Appare chiaro fin dalle prime pagine del volume, infatti, che il Padrone di cui si fa menzione nel titolo altro non è che Dio:
"(...) Io però credo a quello che diceva mio zio prete, che cioè ogni cosa sia prestabilita, nella mente di Dio. I suoi fini? Egli solo lo la: noi non possiamo saperlo. Altrimenti, se noi non ci spieghiamo così le cose, diventiamo pazzi. Egli è il nostro padrone, e il padrone non è obbligato a dar schiarimenti ai suoi servi (...)".
L'intreccio della narrazione risiede proprio nelle scelte di questa Divinità altera e inaccessibile, e le vicende che seguono ai primi eventi mostrano una circolarità che resterà costante per tutto il romanzo, per poi giungere all'inevitabile finale in cui la volontà degli uomini sarà costretta ad arretrare di fronte ad un ineluttabile Destino.
Oltre al tema fortemente introspettivo di Dio e della religione, ne Il nostro padrone la Deledda mescola un certo animo che oggi definiremmo "ecologista", testimoniato dalle pagine in cui si narra dettagliatamente della speculazione boschiva della quale la Sardegna fu tristemente protagonista tra l'800 e il '900, e che la scrittrice non risparmiò di rappresentare in termini assai critici:
"(...) Tuo nonno gli ha fatto la barba, al Monte! Luisi, mio figlio, dice che era meglio lasciarli, i boschi, per l'aria buona, ma allora i denari chi li prendeva? (...)".
Parole, queste, che oggi suonano talmente familiari da rasentare la banalità, ma che all'epoca in cui vennero scritte costituivano l'espressione di un animo sensibile che avrebbe precorso i tempi, e che dovevano suonare come una denuncia niente affatto velata nei confronti delle popolazioni straniere che depredavano i boschi dell'Ortobene, a testimonianza (una volta di più) dello straordinario amore dell'autrice per la sua splendida terra sarda.
Certo è che, nonostante i fasti del premio Nobel fossero ancora di là dal venire, nelle pagine de Il nostro padrone già risuonava l'animo battagliero e impavido che avrebbe contraddistinto l'opera omnia della Deledda, prova ne siano le dure parole riservate ai suoi conterranei:
"(...) Chi le dice che io non apprezzo i sardi? Tutt'altro! Ma voi potreste fare più di quel che fate; voi siete indolenti: vi lasciate togliere il pane dalle mani, senza protestare. Chi, per esempio, si porta via i tesori delle vostre miniere, dei vostri mari, dei vostri boschi? Basta che uno straniero venga in Sardegna per diventar ricco. Si direbbe che la vostra è una terra di conquista (...)".
In conclusione, Grazia Deledda ha dimostrato con Il nostro padrone di non essere una mera narratrice della sua terra, seppur questo tratto sia stato il solo a venirle attribuito dalla critica per lungo tempo, ma ha dato prova di riuscire a coniugare tematiche a lei tanto care ergendole a canoni universali, ed in tal maniera forgiando dei personaggi che restano indelebilmente impressi nel nostro animo, e amalgamando le loro debolezze con le nostre, dando vita così a delle caratterizzazioni tanto moderne da apparire eterne.
Ilaria Pocaforza
Ilaria Pocaforza