di Charlotte Brontë
Flower-ed 2016
Traduzione e cura di Alessandranna D'Auria
pp. 80
€ 7,99 (ebook)
€ 15 (cartaceo)
Perchè pubblicare Emma, ultima opera incompiuta di Charlotte Brontë?
È la domanda che mi ronza in testa da quando mi hanno proposto questo breve testo, pubblicato per la prima volta in italiano dalla casa editrice Flowered, e che non trova piena risposta nemmeno a lettura terminata. Perchè dell'ultima fatica di Brontë non ci resta che una manciata di parole, due capitoli appena abbozzati, una prima stesura che presenta chiaramente tutti i limiti del caso: la scrittura priva di revisione, l'incompiutezza della storia, personaggi e trama solo accennati e il dubbio su quali fossero gli obiettivi dell'autrice, quale forma avrebbe preso, se semplice esercizio letterario, bozzetto preparatorio per altro articolato e ambizioso progetto, prime acerbe pagine di qualcosa di più complesso. Se davvero esigui sono gli elementi a nostra disposizione per intuire gli sviluppi della trama, non è tuttavia difficile immaginare che la misteriosa protagonista della vicenda dall'identità sconosciuta, avrebbe potuto inserirsi a pieno titolo fra le iconiche eroine brontiane. La riflessione sulla femminilità, nelle numerose sfumature scelte da Brontë nelle proprie opere, si dimostra infatti un tema centrale anche in questo frammento, che ruota intorno all'ambigua domanda: chi, o meglio, cosa, è Matilda Fitzgibbon/Emma? Quesito che, data la natura incompiuta del testo, non può trovare risposta, e ci riporta alla domanda d'apertura: perchè scegliere di pubblicare un testo così breve, alla sua prima stesura, con i limiti prevedibili che uno scritto acerbo naturalmente porta con sè?
La prima, più istintiva, ragione è quella fornita dalla curatrice stessa, Alessandranna D'Auria: il desiderio. Di ritrovare ancora una volta, seppur in forma incompiuta, la voce di un'autrice tanto amata, cercare tra quelle poche pagine il ritratto di una femminilità reale, complessa, al pari dii quelle che l'hanno preceduta: un'altra Jane, Lucy, Frances, Shirley. E inserire un ulteriore, fondamentale, tassello nella ricostruzione della bibliografia brontiana che proprio nell'anno del bicentenario della nascita della scrittrice inglese, si è arricchito di nuovi interessanti testi, opere inedite, ristampe, saggi e biografie. È, naturalmente, con interesse e curiosità che ho accolto anche questa pubblicazione, ben strutturata e senza dubbio, si è detto, centrale nel progetto di un recupero bibliografico esaustivo, ma che lascia anche un paio di perplessità, di cui è bene accennare subito, prima di concentrarsi sugli aspetti critici più interessanti dell'opera.
Emma è presentato insieme ad un'altra pubblicazione ad opera della stessa casa editrice, Willie Ellis, anche'esso romanzo incompiuto, a cui seguirà ad inizio anno un terzo lavoro; sono quattro, in totale, i romanzi incompiuti di Brontë - in inglese riuniti nell'edizione Unfinished Novels, al momento di difficile reperibilità - di cui restano un paio di capitoli o poco più: è curioso, quindi, che i quattro testi vengano proposti in edizioni singole, quando sarebbe sembrato più opportuno riunirli in volume unico come avviene di solito, per esempio, per gli scritti giovanili; tuttavia, nonostante tale scelta mi abbia lasciata perplessa, non posso fare a meno di apprezzare il discreto apparato critico e bibliografico di cui il testo è corredato, una tendenza che - ahimè - sembra ultimamente andare sempre più scomparendo. Emma - e, presumibilmente anche Willie Ellin e gli altri inediti - è infatti pubblicato in un'edizione ben curata, contenente prefazione e postfazione ad opera della traduttrice e curatrice del testo, un breve saggio di William Thackeray originariamente pubblicato sul Cornhill Magazine nell'aprile del 1860 ad introdurre l’opera di Brontë e un breve apparato di note e spunti bibliografici da cui il lettore può partire per eventuali approfondimenti.
È un testo che idealmente si rivolge ad un pubblico che disponga già di una certa familiarità con i romanzi di Brontë, data appunto la natura frammentaria dell’opera e l’apparato critico che la correda, decisamente interessante per cercare di comprendere l’evoluzione della produzione letteraria dell’autrice in quest’ultima fase. Emma, infatti, vede la luce in un momento estremamente particolare nella vicenda biografica dell'autrice ed avrebbe segnato, con buone probabilità, la chiusura di una carriera letteraria sorprendente. Dopo una vita di sofferenze sentimentali, lutti e solitudini, Charlotte aveva infatti accettato di sposare il reverendo Nicholls, il ruolo di moglie a sostituirsi a quello di scrittrice; due realtà inconciliabili per lei, che nella nuova quotidianità – e, soprattutto, nelle rigide imposizioni del marito – non sa trovare la tranquillità necessaria per dedicarsi alla scrittura, come ha fatto per tutta la vita, riversando il mondo, le sue passioni, i propri turbamenti, sulla pagina. E noi lettori, intransigenti, come la stessa D'Auria non abbiamo mai davvero perdonato a Charlotte di aver scelto l’illusione di una felicità coniugale – un idillio precocemente interrotto dall’improvvisa morte di lei – all’indipendenza, i doveri domestici al richiamo della scrittura:
Aveva patteggiato con la Vita: normalità in cambio della libertà. Pur avendo combattuto per la propria indipendenza, fu sopraffatta dalla paura della solitudine [...] . (Dalla prefazione)
Che cosa abbia significato in termini di scrittura arrendersi alla proposta di Nicholls, lo possiamo leggere proprio in questo romanzo incompiuto, bruscamente interrotto dal richiamo di una nuova, inaspettata, fase delle propria vita con la felicità e sacrifici che essa comporta, ed infine dalle forze che le sono venute meno. Nella fondamentale biografia brontiana Una vita appassionata, pubblicata per la prima volta in italiano proprio quest’anno da Fazi, Lyndall Gordon non manca, naturalmente, di interrogarsi sugli ultimi anni di vita di Charlotte, il matrimonio e, appunto, le ripercussioni che tale scelta hanno avuto sulla sua carriera letteraria, riservando anche a quest’ultimo romanzo una lettura attenta, ricca di spunti interessanti. Nella storia della misteriosa Matilda Fitzgibbon, Gordon riflette, infatti, su quale aspetto della complessa natura femminile Brontë avrebbe saputo tratteggiare in questa sua ultima eroina, di cui resta solo un abbozzo. La solitaria ereditiera accolta dalla direttrice della scuola femminile cui il padre la iscrive con tutti i riguardi derivanti da un’apparente posizione sociale di rilievo, è l’ultimo abbozzo di eroina brontiana che rimane oggi al lettore e su cui resterà il mistero. Silenziosa, distante, non particolarmente benvoluta dalle compagne, pallida, estranea al mondo e ai suoi meccanismi, Miss Fitzgibbon è una creatura selvatica, un enigma difficile da svelare – per il lettore, certo, di fronte all’incompiutezza dell’opera – per i comprimari della storia, che si interrogano sull’identità e la natura di quella misteriosa ragazza. È in questo enigma che risiede il senso profondo della storia, come sottolineato appunto da Gordon:
“Cosa” è una parola cruciale in quest’opera. “Cosa” è al centro della scena. Cos’è la ragazza nel profondo della sua natura? Ecco la vera questione, il vero mistero, che ovviamente non può essere svelato in una scuola femminile dove tutte le preoccupazioni ruotano intorno alla domanda “chi sei tu?”, che presuppone una risposta in termini di status sociale. Per la signorina Fethered il “chi” è semplice: un’allieva è chi è suo padre – e se suo padre non esiste, la sua identità, la sua stessa esistenza, viene messa in discussione. Non sorprende che questa ragazza appaia pallida, inanimata, congelata e, infine, “paralizzata”. Scossa da tale domanda perentoria, non riesce a parlare.
“Paralizzata”, preda di attacchi di sonnambulismo e convulsioni durante i quali rivela tutta la sua fragilità, il tormento che si cela dietro silenzi e modi sfuggenti, ma anche segno di una natura complessa, nervosa, difficile da comprendere. Di scarso interesse, a mio avviso, lanciarsi ora in congetture su significato ed implicazioni di sonnambulismo e personaggi femminili, topos ricorrente nella letteratura inglese ottocentesca; quello che vale la pena in tal sede considerare, alla luce dell’esile materiale di cui disponiamo e delle interessanti considerazioni fatte da D'Auria e, ancora, Gordon, è il potenziale che, nonostante tutto, si rivela da queste poche pagine e l’interesse mai venuto meno nel tempo nei confronti dell’opera di Bronte, come evidente in chiusura di un anno ricco, si è detto, di pubblicazione e nuove edizioni, ma anche festival, trasposizioni televisive – tra cui, per esempio, la nuova serie targata BBC1 To Walk Invisible, trasmessa dal 29 dicembre, sulla vita delle tre sorelle Brontë – giornate di studi e dibattiti. Perchè seppur embrionale, tragicamente incompiuto e dagli evidenti difetti di una prima, frettolosa, stesura priva di revisione, Emma avrebbe con buone probabilità presentato un nuovo, interessante ritratto femminile e, forse, della società tardo vittoriana: la psicologia femminile, complessa, tormentata, celata dietro il mascheramento che la stessa Charlotte si era imposta per tutta la vita per proteggere il proprio io domestico più vero, è la materia privilegiata su cui l’autrice non aveva mai smesso di interrogarsi, romanzo dopo romanzo. Indagando il desiderio di indipendenza e libertà, il coraggio o la ritrosia, la modestia, la caparbietà, di quei cuori vivaci dietro un’apparenza modesta, anonima perfino, Charlotte delineava le complesse sfaccettature dell’animo femminile, la realtà di un mondo dominato dagli uomini nel quale lei stessa ha duramente faticato per essere ammessa.
Impossibile sapere del destino di Matilda/Emma, dello spazio che sarebbe stato concesso in questo romanzo alla riflessione sociale – sempre più presente nella tarda produzione letteraria di Brontë – la rielaborazione sulla pagina, ancora una volta, della personale esperienza biografica e, nonostante ci siano stati due tentativi di proseguire questa storia, personalmente non sento minimamente l’esigenza di approfondire la questione, trovando sempre deludente, esercizio sterile, la continuazione per mano di altri autori di romanzi incompiuti. Quello che conta è tutto lì, sulla pagina: due capitoli, da cui possiamo immaginare una storia, un’altra interessante figura femminile e, per consolarci della brevità del testo, fermarci ad osservare la scrittura, le imperfezioni di un lavoro in divenire, l’urgenza di riversare sulla pagina e solo in un secondo momento concentrarsi sulla forma, sulla parola che, sappiamo, sarebbe infine diventata attenta, elegante, intima. Su questo, un ulteriore appunto ad un’edizione che, lo ripeto, è comunque interessante e ben strutturata: data la particolarità del testo, sarebbe stato senza dubbio utile trovare accanto alla traduzione di D'Auria l’originale brontiano, così da potersi confrontare direttamente con il romanzo in lingua originale e comprendere più da vicino la struttura linguistica di un’opera priva di revisione, embrionale, come si è detto.
Impossibile sapere del destino di Matilda/Emma, dello spazio che sarebbe stato concesso in questo romanzo alla riflessione sociale – sempre più presente nella tarda produzione letteraria di Brontë – la rielaborazione sulla pagina, ancora una volta, della personale esperienza biografica e, nonostante ci siano stati due tentativi di proseguire questa storia, personalmente non sento minimamente l’esigenza di approfondire la questione, trovando sempre deludente, esercizio sterile, la continuazione per mano di altri autori di romanzi incompiuti. Quello che conta è tutto lì, sulla pagina: due capitoli, da cui possiamo immaginare una storia, un’altra interessante figura femminile e, per consolarci della brevità del testo, fermarci ad osservare la scrittura, le imperfezioni di un lavoro in divenire, l’urgenza di riversare sulla pagina e solo in un secondo momento concentrarsi sulla forma, sulla parola che, sappiamo, sarebbe infine diventata attenta, elegante, intima. Su questo, un ulteriore appunto ad un’edizione che, lo ripeto, è comunque interessante e ben strutturata: data la particolarità del testo, sarebbe stato senza dubbio utile trovare accanto alla traduzione di D'Auria l’originale brontiano, così da potersi confrontare direttamente con il romanzo in lingua originale e comprendere più da vicino la struttura linguistica di un’opera priva di revisione, embrionale, come si è detto.
Perplessità e piccoli difetti che, tuttavia, non tolgono il piacere della lettura, con tutti i limiti del caso data la natura stessa dell’opera. E se fa un po’ sorridere l’elogio altisonante riservato da Thackeray a questo romanzo – alla luce, soprattutto, di un’amicizia non sempre facile tra i due autori – scritto, si accennava, in occasione della pubblicazione, postuma, del manoscritto, noi lettori di oggi possiamo giudicare il testo dalla giusta distanza temporale ed emotiva, notarne il potenziale, riflettere – con una certa amarezza – su quanto le scelte della donna abbiano influito sulla scrittrice, osservare difetti strutturali e tematici di una prima stesura, fare congetture su una storia, che scegliamo di lasciare incompiuta.
Di Debora Lambruschini