La Meccanica del Pane
di Michele Caccamo
Castelvecchi Editore, 2016
pp. 308
€ 25,00
Lo chiamano il poeta della fratellanza, ma è anche il poeta delle vittime. Un tiratore scelto.
Michele Caccamo, scrittore, poeta e drammaturgo italiano, di tematiche ne ha, e non poche. Pubblicato e tradotto in tutto il mondo, dallo Yemen alla Palestina, fino agli Stati Uniti, ha fatto della sua penna un’arma. Che si tratti di denuncia sociale, questo è certo. Ma c’è anche una buona dose d’introspezione e di giudizio critico, intriso di valori che stimolano l’emancipazione del pensiero e l’incontro tra le religioni.
Non importa che sia Cristianesimo oppure no, e non viene neanche la voglia di chiederlo. Quella di Michele Caccamo è sicuramente una religiosità disincantata − più che pessimismo religioso − una preghiera atea che rifugge qualsiasi retorica di linguaggio altisonante.
La Meccanica del Pane 2010 - 2015 raccoglie un corpus di quasi trecento liriche, complesse e affascinanti. E dico complesse perché Ermetismo e Realismo si fondono in momenti amletici, in cui solo il poeta sa effettivamente il significato che si portano dietro. C’è una ricerca di risposte in sovrastrutture – nel senso marxista del termine – in cui la religione è l'espressione meno evidente del potere, «è un tranello senza speranza /e si chiede la preghiera / per quel Dio indorato / da un’industria».
Ad ogni modo, Dio e la morte sono topos stabili e con loro tutto quello che ne consegue: la giustizia mancata, la guerra, la faida e la massificazione nociva. L'amore.
«un pensiero hanno l’amore e la distanza / di essere del tutto vicini / e rifiniti per millimetri / per mettere insieme una parola / senza avere abbastanza spazio / e avere la carne come fosse pane / in due bocche che si aprono / per poter trovare un aiuto / il centro del buono».
Qui i toni si fanno delicati e il lessico rimane quello biblico ─ caratteristico di tutta La Meccanica ─ per poi riprendere l’asprezza nella parte finale, dov'è la reclusione che fa da padrona. Una tematica non scelta ma vissuta.
La stile è frutto di un costante lavoro chirurgico, ripulito del superfluo, privo di punteggiatura e senza titoli, dove gli enjambement sono una regola. Il poeta non usa maiuscole, neppure nell'incipit, tranne per alcuni concetti che vuole enfatizzare. Il discorso è allora mai interrotto e rende una continuità del ragionamento che sembra avvenire in quel momento, in più, i versi hanno una loro ritmica interna, perché brevi, una musica nascosta, per dirla con La Capria.
Seppure Caccamo sia il poeta violato dal carcere, il linguaggio non è mai succube di vittimismi, ma sempre dialettico: «il carcere è un vantaggio della religione / ma si potrebbe altrettanto bene / qualificare satana / e non lo troverei strano / le regole rimangono uguali / noi lo sappiamo che la fede / in quanto regime / è una speranza intellettuale / è come si potessero pareggiare i conti / dopo un amore infedele / riuscire a placarsi espiare l’angoscia / se solo riuscissi a pregare / Dio sarebbe una creazione spontanea / e avrei la bocca imbottita di acqua santa».
Ecco perché, La Meccanica del Pane è ermeneutica francamente materialistica del reale, e per riflesso anche della Storia. Una sorta di ‘Storia delle Vittime’ che ricorda Alfonso Gatto, in cui la parola diventa un'arma ‘politica’, l'unica battagliera dalla moralità ancora salda che vendica i torti e rappresenta quelle stesse vittime.
I bambini di Baghdad, i condannati a morte e le loro madri, i neri di Harlem, le vittime della mafia e i torturati dei Gulag. Tutte le vittime di un mondo offeso.
noi siamo la repubblica libera / e aspettiamo il diritto sociale / la lezione che si è detta vera / che la miseria è un ferro / che sono quattromila tonnellate / i mendicanti / e che per la via del loro amore /saremo tutti padri di una seria idea morale.
Isabella Corrado