di David Markson
traduzione di Sara Reggiani
Edizioni Clichy, 2016 (1988)
pp. 269
€ 15
Bisogna usare una metodologia.
Perché se vi fate spaventare dal titolo, temendo chissà quali digressioni
filosofiche o citazioni dal “Tractatus”, bene, la lettura sarà ancora più
impegnativa di quanto potreste immaginare negli incubi peggiori. Ma, appunto,
un metodo scientificamente provato, sul sottoscritto, vi condurrà a un confronto, ad armi impari sia chiaro ma
comunque fruttuoso, con un libro di potenza sovrumana, imperdibile,
stimolante, rifiutato solo 44 volte
prima di essere pubblicato negli Stati Uniti. Finché, con scelta coraggiosa, è
arrivato in Italia. Corredato da un saggio di David Foster Wallace tradotto da
Martina Testa.
Ecco, vi sento già scattare sulla
sedia: DFW? Sì, lui in persona. Il
genio che grazie alla capacità critica e all’attenzione di lettore di cui
disponeva, nonché alla tesi di laurea su Wittgenstein, è riuscito a scrivere un
testo di grande levatura su questo romanzo americano. Giudicato: «uno dei migliori… del decennio» (gli anni Ottanta del Novecento, ovviamente -
n.d.a.) e «un tipo particolare di grande libro, letteralmente profondo, e
probabilmente destinato, nella pienezza sua e dei tempi, a diventare senza
troppo clamore un classico».
Detto en passant, gli anni Ottanta hanno prodotto qualcosa di buono negli
Stati Uniti, anche se Philip Roth e Thomas Pynchon se ne stavano nei ranghi. E
“L’amante di Wittgenstein” si distingue
in mezzo a una produzione letteraria di tutto rispetto. Ecco qualche titolo:
Don DeLillo con “Rumore bianco”, John Irving con “Le regole della casa del
sidro”, Stephen King con “It”, James
Ellroy con “Dalia
nera”, Paul Auster con “Trilogia di New York”, Elmore Leonard con
“Dissolvenza in nero”, Cormac McCarthy con “Meridiano di sangue”
e l’esordio proprio di DFW con “La scopa del sistema”. E chissà quanti ne
dimentico.
Veniamo alla tecnica di avvicinamento e conquista: leggete prima il saggio di
David Foster Wallace che è la postfazione, praticamente partite del fondo, poi questa
recensione su "I fiori del peggio",
a questo punto immergetevi nel romanzo e infine rituffatevi ne “La pienezza
vuota”. Così DFW ha scelto di intitolare la sua analisi del testo.
“L’amante di Wittgenstein” è un lungo, e apparentemente sconclusionato,
monologo di una donna, Kate: una pazza o l’unica rimasta al mondo dopo
chissà quale apocalisse? La donna scrive a macchina (a chi?) soggetta alle mestruazioni
e con un gatto, che la riporta con il pensiero al Colosseo e fra le pieghe
della storia dell’arte, che si fa le unghie grattando alla finestra della casa
sul mare dove si è ridotta a vivere dopo tante peregrinazioni: Messico, Italia,
Russia, Stretto dei Dardanelli (chissà come avrà fatto a spostarsi? Cioè, in parte
si capisce: con una serie di auto che abbandona quando finiscono la benzina. Ma
sai che noia percorrere tutta la steppa russa e siberiana. E sai che ingegno
traghettare tra un emisfero e l’altro).
Kate in precedenza potrebbe
essere stata una pittrice, aver avuto un marito, un figlio e alcuni amanti (non
solo Wittgenstein). Le sue sono frasi
semplici, monotone, ripetitive, contraddittorie, dai temi ossessivamente
ricorrenti e le sue associazioni più o meno legittime. Confonde i nomi, divaga
tra varie epoche, con particolare attenzione alla classicità greca, alla
guerra di Troia, alle figure di Elena e Penelope, alla Amsterdam di Spinoza e Rembrandt, alla
Spagna della controriforma, con William Gaddis che diventa Taddeo Gaddi, Brahms
che regala caramelle, la musica romantica, il Dasein di Heidegger e altri curiosi riferimenti a sport quali
baseball e tennis (altro elemento che costituisce un punto a favore se poi è
uno come l’ex-tennista David Foster Wallace a recensire un libro). Sullo sfondo,
riemergono i periodi in cui Kate abitava nei musei, da Parigi a Londra, dove ha
fatto danni incalcolabili che non disturbano alcuno perché non è rimasto essere
umano a goderne o a preoccuparsi della loto tutela, le pagine lette e subito
dopo bruciate, una dietro l’altra, qualche accenno all’autore del “Tractatus”,
che non si è limitato al “Tractatus”, tra cui la celeberrima frase: il mondo è tutto ciò che accade.
A breve riporterò un esempio che reputo
significativo per rendere la wittgensteineità del romanzo. Prima però un piccolo
inciso: tralascio tutto il discorso relativo al fatto che
la voce della protagonista sia femminile al cospetto di un autore maschio e le
considerazioni sulla donna, sul rapporto tra il senso di tragedia, di
eredità greca, e il senso del peccato, di eredità evica, che l’accompagna
perché, secondo me, su tale argomento DFW ha dato il meglio di sé nel saggio
sopra citato e francamente non mi pare il caso di pretendere di essere
originale o più efficace. Dicevo dell’esempio:
«Nel
frattempo la questione delle cose che esistono solo nella testa continua
vagamente a tormentarmi, a dire la verità.
Sostanzialmente perché mi è appena venuto in mente che
il fuoco che forse accenderò nell’area di smaltimento rifiuti, per vederlo
brillare sulle bottiglie rotte, è un’altra cosa che esiste solo nella mia
testa.
Se non fosse che in questo caso è una cosa che esiste
solo nella mia testa nonostante non l’abbia acceso, il fuoco.
Anzi, esiste nella mia testa anche se probabilmente
non accenderò mai il fuoco.
E, a essere sinceri, quello che davvero ho in testa
non è nemmeno il fuoco, bensì quel dipinto di van Gogh che ritrae un fuoco».
Se il mondo è tutto ciò che accade e non sussistono nessi
causali tra i fatti né, tantomeno, una necessità in forza della quale una cosa
debba accadere perché un’altra è accaduta, l’equivalente letterario, la
traduzione di questo succedersi infinito è un accavallarsi altrettanto inesauribile
di pensieri scritti. Anche se poi un libro, necessariamente, per ragioni
editoriali e di resistenza biologica dell’autore, una fine deve averla. Il modo in cui viene a comporsi la
non-trama de “L’amante di Wittegenstein” mi pare l’equivalente del mondo prefigurato
dal filosofo viennese.
In sostanza, un non-mondo in grado di immagazzinare continue informazioni per
salvarsi dal collasso. Il titolo non è dunque fuorviante.
Se non esistono nessi causali tra i fatti, non
sussistono neanche tra gli osservatori dei fatti, ovvero gli uomini. Ciascuno, nella
sua testa, è tutto quello che accade lì dentro, ovvero è alle prese con
pensieri che rimandano ad altri, che sfumano nella mimesi, nella riduzione
iconica. Non
è dirimente sciogliere il dubbio sulla pazzia o non pazzia di Kate: la donna protagonista potrebbe scrivere il suo
flusso in una stanza di manicomio oppure perché è la superstite di una
catastrofe planetaria. Ciò che conta è che lo faccia in solitudine e nell’incapacità
di sistematizzare.
D’altronde Wittgenstein riusciva a pensare «così
intensamente che lo si poteva effettivamente vedere nell’atto di farlo». Anche Kate vuol essere vista, per tutto il libro,
all’inizio lascia messaggi nelle strade poi passa alla macchina da scrivere a cui affida la sua insistente fuoriuscita mentale.
Se mai emergesse una qualche necessità, non è nella realtà, di per sé una
babilonia di accadimenti, ma nel permettere alle idee, e alle proposizioni che
le esplicitano, di ritagliarsi una loro presenza.
Marco Caneschi