Il Dio dei viventi
di Grazia Deledda
Ilisso, 2011
Prefazione di Bachisio Zizi
pp. 168
€ 11 (cartaceo)
€ 4,90 (ebook)
Un uomo muore scapolo, lasciando un figlio illegittimo, ma molto amato. La madre, Lia, reclama dalla famiglia del defunto i mezzi con cui mantenerlo, attirando su di sé l'ira di chi teme il discredito e le malelingue. Il fratello, Zebedeo, cerca di mediare, le offre piccoli compensi in cambio del silenzio e dell'assenza di scandali. Lo fa per adempiere alle volontà di Basilio, dice, ma esistono in lui ragioni più meschine: il desiderio di mantenere intatto il patrimonio, di trarre vantaggio dalla sventura, di ammantarsi di nobiltà senza in realtà rinunciare alla consolazione dei beni materiali.
Come commenta causticamente Grazia Deledda, infatti, "il tempo fa presto ad asciugare le lagrime degli eredi" (51), e insieme alle lacrime si dimenticano presto anche gli scrupoli di coscienza, quelli che pungolano la memoria e ricordano che il piccolo bastardo è progenie del caro estinto, sangue del suo sangue. Ne Il Dio dei viventi proprio le ragioni del sangue vengono contrapposte a quelle della Legge, secondo una tradizione che risale già all'età classica. Al centro del dibattito è il pensiero di Dio, che tutti si sforzano o pretendono d'interpretare. In particolare, la logica che guida l'agire di Zebedeo, suggerita anche dall'epigrafe tratta dal Vangelo di Marco che apre il breve romanzo, è che "dopo tutto i morti son morti e ai vivi Dio stesso comanda di vivere e di fare il proprio dovere" (48). Ma le interpretazioni umane delle divine intenzioni non possono che essere piagate, tarate all'origine, dalla debolezza e dell'egoismo. L'uomo su cui gravano i sensi di colpa non riesce dunque a scorgere il sorriso del mondo, ma proietta all'esterno i fantasmi della sua angoscia, vedendo solo oscurità laddove il pianeta continua a vivere e girare nella sua imperturbabile serenità:
E lo stridere degli uccelli, il fischio del merlo, lo zirlo dei primi grilli pare lo irridano con la loro musica spensierata; tutta la natura ride e anche il più umile stelo e anche l'erba velenosa danzano al vento del tramonto: ogni cosa si gode la sua gioia, anche le ombre salgono verso le cime per sparire il più tardi possibile, e tu solo, uomo, ti rodi con i tuoi denti stessi il cuore. Il nemico è dentro di te mentre lo credi dietro la siepe; e tutto questo perché ti sei dimenticato che Dio vuole si viva giorno per giorno come gli uccelli dell'aria e gli steli dei campi (49-50).
Quasi a confermare i peggiori timori, le sventure si accaniscono sulla famiglia Barcai. Tutti sospettano di Lia, su cui aleggia la fama misteriosa e oscura della stregoneria. Lei dal canto suo continua a lottare per il figlio, il piccolo Salvatore, bambino studioso e intelligente, moralmente integro, privato dei suoi diritti dalla altrui crudeltà. A gran voce Lia sostiene che un testamento ci fosse, e che sia stato opportunamente fatto sparire. Nessuno nega apertamente, Zebedeo la invita a tacere. Il sospetto travolge la donna come i lettori. Il dibattito etico, vero protagonista dell'opera, si infiamma. La donna proclama la ferocia dell'essere umano, indifferente e senza scrupoli, Zebedeo - non si sa quanto utilitaristicamente - si fa portavoce del relativismo, della buona fede, della tolleranza verso il prossimo, del perdono. Difende l'errore come un elemento connaturato ad ogni individuo: "Siamo tutti soggetti all'errore[,] tutto sta a sapervi rimediare" (87). La replica più secca e incisiva viene dal fabbro Michele che, come Lia, subíto un grave torto, "lavorava di notte e sperava vendetta dalla forza del suo odio" (85): "Non è vero; Dio ci ha dato un'anima viva, e sta in noi fare il bene e il male: noi siamo nel mondo solo per questo" (87). Dio non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi, perché durante la vita l'uomo è chiamato a dare il meglio di sé, ad agire secondo coscienza, a comportarsi come se il sacro fosse presente in lui e nell'altro che gli è dinnanzi. Ma Zebedeo non coglie i segnali che gli giungono, le parole accorte di chi lo circonda. Non basta la moria del bestiame, l'infertilità dei campi, o che il figlio Bellia cada vittima di una malattia che non guarisce nonostante le cure. L'uomo non vuole cedere alla superstizione, anche se un brivido gli corre lungo la schiena ogni volta che pensa alla donna del fratello. Il romanzo si muove dunque sullo spigolo tagliente che divide la razionalità dalla suggestione, la scienza dalla fede, mentre la tensione cresce inesorabile fino alla rivelazione, neanche troppo sconvolgente, delle ultime pagine.
Con l'intelligenza che le è consueta, Grazia Deledda non prende una facile posizione; sceglie piuttosto di non schierarsi apertamente in favore di uno dei suoi personaggi. La sua decisione, non scontata, per uno dei suoi romanzi meno noti è quella di costringere anche il lettore a sospendere il giudizio, a dubitare di sé, a dubitare di un finale che appare tutt'altro che semplice e che, più che risolverli, apre la strada a nuovi interrogativi.
Carolina Pernigo
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