Scuola di classe
di Roberto Contessi
Laterza, 2016
pp. 110
€14
Cosa succede davvero all’interno degli edifici dove i nostri ragazzi trascorrono gran parte della loro giornata? La scuola offre ancora (e ha mai offerto) un valido sostegno alla famiglia nella formazione culturale, sociale e morale dei giovani? In un testo che ricorda da vicino I delfini di Pierre Bourdieu, Roberto Contessi porta avanti una vibrante denuncia contro il sistema scolastico italiano e quello che chiama un «classismo culturale» che, all’interno delle scuole, ha sostituito il «classismo sociale ed economico», portando però alla medesima conseguenza: un sistema che premia i ragazzi più forti e scoraggia ed emargina i più deboli. Abbandonando questi ultimi al loro destino già scritto di ultimi della classe, la scuola, secondo Contessi, non si limita ad amplificare la disuguaglianza tra ragazzi seguìti dalle famiglie (e, dunque, già capaci di orientarsi nel panorama culturale e sociale) e giovani più fragili e orfani di attenzione; Contessi rileva nel rituale scolastico italiano una falla ancora più grande: ciò che controbilancia il classismo culturale, appianando le differenze tra bravi e meno bravi, è l’abitudine consolidata all’interno della scuola a fornire a tutti, indistintamente, il titolo di studio superiore, senza colmare le mancanze culturali, senza aiutare i più deboli a raggiungere un certo livello di sapere (e saper fare). In tal modo, il diploma di maturità diviene cartastraccia, o «un titolo di cartapesta», come lo definisce il professore.
Spesso si balla un minuetto affascinante fra colleghi, fatto di d’inviti, cortesie e baciamani, che permettono di presentare i candidati più fragili come frutto del destino e quelli più forti come il risultato di un grande lavoro di squadra. (p. 49)
Il titolo così ottenuto non soltanto ratifica le carenze degli studenti, ma inficia l’intero sistema scolastico che sembra nascondere, dietro un atteggiamento “buonista”, la sua macroscopica tara: non è in grado (o non ha la volontà?) di incidere, così com’è, nella formazione e nella crescita delle generazioni più giovani, limitandosi a riconoscere il talento dei più brillanti, e rinunciando a mettere in atto strumenti validi per il recupero di quelli più ai margini.
Dal classismo economico e sociale di Bourdieu, che rilevava la tendenza della scuola e dell’università francesi a promuovere (e dunque premiare) quegli studenti figli del medesimo tessuto socioeconomico medio borghese da cui provenivano anche i professori, in un sistema che essenzialmente perpetuava sé stesso, si è passati oggi a un classismo culturale, in cui a essere valorizzati sono quegli alunni già in possesso degli strumenti culturali necessari ad avanzare nel mondo (essenzialmente, una famiglia presente e attenta che aiuta il giovane a crearsi una serie di interessi compositi e somministra gli stimoli culturali adeguati alla sua crescita).
La conseguenza di entrambe le forme di classismo è la medesima: una grossa fetta della popolazione è destinata a rimanere ai margini del mondo del lavoro, della vita socio-culturale del paese, e di quella politica, poiché non dotata delle conoscenze e delle esperienze necessarie per prenderne parte in modo attivo e consapevole.
Dietro l’apparente fine dell’analfabetismo giovanile (…) si nasconde il drago dell’analfabetismo di ritorno: generazioni di cittadini perdono gradualmente perdono gradualmente il contatto con calcolo, lettura e scrittura addirittura fin da quando lasciano i banchi di scuola. (p. 55)
Contessi, citando dati Istat e indagini Ocse, parla di un buon 70% della popolazione italiana incapace di leggere e interpretare correttamente un testo scritto o di compiere banali operazioni di calcolo applicate ai problemi della quotidianità. Questa estrema situazione di disagio è figlia di un sistema scuola che appare apatico e rinunciatario di fronte al suo ruolo preminente, quello di formare alla vita e alla partecipazione culturale, economica (e anche politica) gli appartenenti alla fascia di età 14-19 anni, giovani donne e uomini nel momento più sensibile e importante del loro percorso di crescita.
Laddove la società è stagnante, invecchiata, sono coloro che ereditano delle opportunità vuoi economiche, vuoi culturali e valoriali ad esercitare in genere una leadership, in assenza di istituzioni che ridistribuiscano ricchezze ed opportunità e in assenza di una scuola che annulli le disuguaglianze creando condizioni di partenza simili. (p. 57)
Accanto a un corposo elenco degli espedienti scolastici che favoriscono questo gettare la spugna («l’interrogazione programmata è la tomba della didattica», si legge a pag. 34), Contessi fornisce alcuni elementi che a suo parere possono aiutare a riportare il sistema scolastico sul suo antico sentiero; in tutti i casi è la condivisione lo strumento chiave che può determinare la svolta positiva: condivisione delle metodologie tra docenti, condivisione anticipata della didattica con gli alunni, condivisione interdisciplinare dei saperi. Un suggerimento interessante di Contessi è quello di legare maggiormente lo studio e la cultura al fare, alla pratica, nell’esplicazione piena dell’assunto psicologico: sapere, saper fare, saper essere. I ragazzi hanno fame di realtà, di applicazioni concrete, sebbene sia comunque da alimentare anche il volo pindarico, il ricorso alla fantasia e alla retorica come esercizio di stile.L’autore continua schierandosi dalla parte dell’esigenza impellente di un sistema chiaro di valutazione dei docenti che prescinda dagli anni di anzianità e guardi al merito (strizzando l’occhio alla riforma Giannini, senza però sottolinearne le criticità).
Quello che all’apparenza sfugge alla riflessione interessante proposta dal saggio, e al suo interno è solo accennato, è un altro degli effetti collaterali di un sistema scolastico in tal misura fallato. Una scuola che rinuncia al suo ruolo formativo nei confronti di una buona fetta dei giovani d’oggi è al contempo estremamente “protezionista” nei riguardi di quel terzo di ragazzi “bravi”, già dotati di talento e di predisposizione naturale allo studio. Atteggiamento, questo, che rischia di far più danni di quello lassista riservato agli studenti più fragili.
Come nel caso di un genitore apprensivo, portato a prevenire ogni bisogno del figlio e a farlo vivere in una realtà ovattata, dove ogni problema è bandito, così una scuola che “coccola” i propri pupilli, alimentandone le convinzioni di autorealizzazione con poco (o nullo) sforzo, chiudendosi agli influssi sociali, politici e professionali del mondo esterno, rischia di creare giovani acculturati, dotati di capacità teoriche, ma assolutamente sprovvisti di strumenti efficaci per affrontare la realtà: le difficoltà della preparazione accademica (dove, non di rado, si distinguono coloro che a scuola erano apparsi come “deboli”), lo stress e la competizione del mondo del lavoro, la necessità di pensarsi non più come “primi della classe” ma come unus ex multis, nella ampia e variegata realtà quotidiana.
L’indagine mette in evidenza, se ancora ce ne fosse bisogno, la grande ferita di una formazione tipica del nostro paese, fondata essenzialmente su un bagaglio di conoscenze e non su competenze e abilità. (p. 58)
…la scuola più che proteggere dovrebbe rendere autonomi, esponendo i ragazzi ad approcci diversi e al principio di responsabilità. (p. 32)
Quello che forse si può rimproverare di più al sistema scolastico italiano odierno è questa pericolosa tendenza a creare un microcosmo altro, lontano dal mondo reale, dove il primato dei più talentuosi e il marchio dei più deboli divengono verità ineluttabili, mancando l’elemento che appare come il più benefico ai fini della formazione e della crescita: la costante messa alla prova.
La scuola deve usare, se necessario, anche il conflitto, perché la formazione ha come pretesto le conoscenze e le competenze, ma come obiettivo l’essere adulti. (p. 53)
Barbara Merendoni