di Carlos Ruiz Zafón
Mondadori, novembre 2016
Traduzione di Bruno Arpaia
Pp. 815
€ 23 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
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Carlos Ruiz Zafón è diventato, nel corso degli anni, specialmente degli anni della sua tetralogia sul cimitero dei libri dimenticati, uno scrittore globale. Ogni capitolo successivo di questa saga è stato atteso con trepidazione da centinaia di migliaia di appassionati suoi lettori, che hanno fin da subito amato le atmosfere un po' decadenti un po' misteriose della Barcellona evocata nei suoi libri. Ecco quindi che anche in questo grande finale, Il labirinto degli spiriti, edito da Mondadori, l'attesa era palpabile. Ma quest'attesa non è stata spesa vanamente. Il quarto ed ultimo capitolo della tetralogia sul cimitero dei libri perduti è infatti un'opera massiccia, ricchissima di spunti, storie e riflessioni (ed anche fotografie, va detto meravigliose, della Barcellona di un tempo). Pare quasi che Carlos Ruiz Zafón abbia voluto un finale scoppiettante, il più possibile in grado di suscitare lo stupore, la suspense e l'amore per la narrativa nei propri lettori. Noi di CriticaLetteraria abbiamo avuto la possibilità, domenica 4 novembre 2016, di incontrare direttamente l'autore a Milano, all'Hotel Principe di Savoia, durante il suo tour di presentazione del libro. Grazie a questo incontro abbiamo compreso meglio un aspetto che, nonostante tutte le pagine lette in questi mesi (anzi in questi anni) dello spagnolo (come confermano le puntuali recensioni del primo , secondo e terzo capitolo della tetralogia) non avevamo forse pienamente inquadrato: il suo occhio, anzi la sua pulsione profonda, da architetto/costruttore della letteratura.
Questa riflessione è partita quasi spontaneamente quando, durante l'incontro tra autore e i vari blogger e giornalisti di riviste e testate letterarie, è venuta fuori la domanda, semplice e diretta, su quali siano per Zafón i "luoghi del cuore" di Barcellona. Lo scrittore, che vive a Los Angeles dal 1993 (quindi da ben prima che "scoppiasse" il successo de L'ombra del vento), ha risposto in una maniera sorprendente per certi aspetti: "Ci sono tanti luoghi di Barcellona che io amo e che ho descritto nei miei libri. Però se ne dovessi indicare uno e uno soltanto, sarebbe il quartiere dove sono nato, ovvero a due passi dalla Sagrada Familia". Ora un autore che fa della qualità e dell'originalità della scrittura una propria cifra stilistica, sicuramente stupisce nel dare una risposta, se si vuole, così banale. Eppure questa risposta è perfettamente da incastonare all'interno della propria "opera grande" della tetralogia. Infatti non vi sarebbe potuta mai essere la biblioteca dei libri perduti senza l'occhio, l'animo e l'indole da architetto che Zafón, più o meno segretamente, ha coltivato in tutti questi anni, anzi che ha coltivato fin da quando, poco più che bambino, scorrazzava nei dintorni dell'altra "opera grande" di Antoni Gaudí
Si osservi proprio il quarto volume, Il labirinto degli spiriti. In questo capitolo finale lo scrittore spagnolo riversa tutta la propria, deflagrante, forza nell'intrecciare le vicende, torcendole, ora dolcemente ora più vigorosamente, verso i contorni del ricordo, dell'avventura o anche della storia thriller, di cui, specie l'ultimo aspetto, questo romanzo, è molto più imbevuto e segnato. E Zafón non potrebbe mettere dentro al suo personalissimo "calderone magico" da scrittore tutti questi ingredienti, questi "blocchetti" come ha detto lui durante l'incontro, senza avere un occhio da architetto, quindi che è attento prima di tutto ai volumi e alla collocazione di essi nello spazio. Ecco perché i libri dello spagnolo sono così solidi eppure aerei, sono al tempo stesso un intrico di storie intrecciate fra di loro, ma anche una serie di frasi perfette, auree nella loro immediatezza e costruzione. Il continuo rimando tra pieno e vuoto fa, come negli edifici più belli e riusciti dell'architettura moderna (che, ricordiamo, più o meno inizia proprio con la Sagrada Familia), è una delle caratteristiche più identitarie di Zafón.
Ma durante l'incontro, è venuto fuori anche altro, anche molto altro. Quando si scrive un'opera di tali dimensioni, non soltanto "di pagine" ma anche e soprattutto di tempo e di spazio, con i protagonisti che vengono colti via via in età molto diverse, giustappunto vengono seguiti quasi passo passo nella loro crescita, dicevamo di fronte ad un tale cimento, è ovvio che corra la curiosità di chiedere se, all'inizio del percorso, lo scrittore avesse esattamente in testa tutto questo progetto. Zafón a questa domanda molto intima se si vuole, non ha atteso un attimo per rispondere, dicendo:
Quando ho iniziato a scrivere la tetralogia avevo certamente un disegno abbastanza preciso in testa: sapevo più o meno, magari anche solo a livello epidermico, dove volessi/potessi andare. Poi questa mia mappa di viaggio ideale, con le tappe e i tragitti che giorno dopo giorno avrei dovuto compiere, l'ho rifatta, riscritta e ripensata più e più volte. Il mio è stato, anzi è, un lavoro di continuo ritornare sui proprio passi, di continuo esercizio giornaliero, proprio come un musicista che, per affinarsi nella sua arte, deve per forza di cose suonare il proprio strumento ogni giorno. Se si vuole per me la letteratura non è altro che un esercizio meraviglioso, un esercizio spaziale e fisico che crea mondi, storie e personaggi non spaziali e non fisici.
E la capacità di evocare dei mondi non fisici ma che lo potrebbero essere, ci è stata confermata anche da un episodio molto buffo che ha raccontato lo stesso autore.
Molto spesso i miei amici librai di Barcellona mi dicono che tanti lettori entrano nei loro negozi e chiedono dei libri di Julian Carax (l'autore fittizio citato nei suoi libri, ndr). E non sapete la delusione che provano quando i librai gli dicono che non esiste questo scrittore: loro ci rimangono male e dicono "Eh ma l'ho letto nel libro". Oppure mi è capitato, anche di vedere con i miei occhi, tante persone girare per le ramblas alla ricerca del cimitero dei libri dimenticati. Addirittura una società di costruzioni qualche tempo fa mi aveva presentato un progetto per la sua edificazione: io ho rifiutato, non volevo che la mia creazione di carta diventasse qualcosa di molto simile a Disneyland
Ecco che Zafón quindi è ora maggiormente inquadrabile nel suo retroterra culturale, fatto di grandi letture ma anche di appassionate e approfonditi sguardi all'ambiente che aveva intorno, alla sua fisicità, senza mai dimenticare l'importanza dell'esercizio, del lento e faticoso lavoro di bulino che lo scrittore deve fare perché la sua opera sia quanto più rispondente ad una perfezione di fondo.
Abbiamo infine chiesto all'autore spagnolo se, quando si tratta di scrivere un romanzo che è anche un capitolo di una storia più grande, si segua di più il proprio istinto, la propria indole, oppure, quasi a livello subconscio, si vadano a rielaborare i consigli degli appassionati lettori, i suggerimenti venuti dai critici, oppure anche qualche frase che, durante presentazioni o conferenze, si è sentito dire:
La domanda è complessa perché penso che tutte le cose citate siano elementi che vadano a concorrere per la realizzazione di un'opera. Tuttavia mi sento abbastanza sicuro nel rispondere che, alla fine, ciò che veramente conta per scrivere un libro, soprattutto un capitolo di una storia allargata come è in questo caso, sia la visione, l'idea che lo scrittore ha. Poi questa visione, quest'idea, dev'essere naturalmente immersa nel mondo reale, quindi non ci si deve chiudere agli stimoli esterni. Ma quello che veramente conta è il lavoro costante sul proprio pensato, un lavoro lungo, che dura anni e che fa consumare un sacco di carta! Però senza questo tempo, fatto di momenti di lavoro intenso, altri di ricerca e studio e infine anche di, come dire, periodi di decantazione di quanto prodotto, non saprei come fare. Il tempo è importante, così come lo spazio, in un libro, anche se poi sono solo storie quelle contenute all'interno di esso.
Mattia Nesto