di Bret Easton Ellis
Traduzione di Francesco Saba Sardi
Einaudi, 2006
pp. 228
€ 10,50
Con Bret Easton Ellis ho sempre avuto dei problemi.
Come persona, si sa, Ellis è uno dei figuri più tristi del pianeta. Soprattutto negli ultimi anni, da quando il buon vecchio Bret, non riuscendo più partorire narrativa degna, si è messo impietosamente a trollare su Twitter più o meno chiunque: scrittori defunti, come Salinger ("Grazie a Dio finalmente è morto, stasera festa!") o David Foster Wallace (insulti vari a più riprese, ma il cui succo è "sopravvalutato") o vivi e premiati con il Nobel, come Alice Munro ("sopravvalutata"); serie tv, come Breaking Bad ("sopravvalutata"); e persino oggetti inanimati, come i pop corn ("bandiamoli dai cinema" – ok, su questo possiamo essere d'accordo). Insomma, sembra quasi che da quel carcere di massima sicurezza chiamato "Anni Ottanta" in cui si è autorecluso e dal quale non riesce più a evadere, Ellis passi il tempo affacciato alla finestra a sputare in testa al mondo il proprio livore di romanziere esausto, nel tentativo di farlo passare per il grido di un Giovane Arrabbiato. Ma l'anagrafe non perdona e tutto ciò che gli esce dalla bocca è ormai soltanto lo starnazzante borbottìo del Vecchio Brontolone.
Il punto è che, a differenza di altri suoi colleghi la cui narrativa langue all'ombra altrui, Ellis è finito oscurato dalla propria. Come autore di un romanzo epocale (American Psycho) e almeno un altro quantomeno esplosivo per potenza e ferocia (Meno di zero), Ellis è riuscito nella doppia impresa di dare voce a una generazione creando al tempo stesso un nuovo modo di raccontarne il disagio. In pratica, Ellis fa così: prende un personaggio o un gruppo di personaggi che all'inizio sembrano avere tutte le carte in regola per vivere la vita perfetta (soldi, lavoro, bellezza, ragazze), e lentamente ma inesorabilmente ne disgrega l'esistenza in un deserto di assurdità, conformismo, relazioni fasulle, routine ossessiva, smarrimento e solitudine. Un movimento narrativo che si pone agli esatti antipodi del romanzo di formazione e porta i personaggi dall'essere tutto (o almeno qualcosa) all'essere niente.
Problema: a lungo andare, la narrazione di Ellis resta contagiata dalla stessa ripetitiva vacuità dell'esistenza dei suoi protagonisti. Con il rischio di diventare stucchevole. Glamorama, per dire, poteva essere un buon racconto di 20 pagine, invece diventa un mastodonte cartaceo di 700 che dice, in due parole, che il mondo dei modelli è frivolo e vacuo. Per giungere a questa fulminante conclusione, Ellis impiega sette anni di lavoro dalla pubblicazione di American Psycho. Un tempo molto lungo per uno scrittore; per un editore, un'eternità. Così, per placare le ansie del proprio, nel 1994 Ellis svuota un cassetto e dà in pasto ad Alfred Knopf una raccolta di tredici racconti scritti al college, ancora prima di Meno di zero.
La raccolta si intitola The Informers, in Italia esce come Acqua dal sole e probabilmente non l'avete mai letta. Se è così, dovete rimediare: è tra i testi migliori mai scritti da Ellis, oltre che uno dei più feroci, brillanti e impietosi della letteratura americana degli anni '80.
Ci troviamo temi che conosciamo già, perché sviluppati con maggiore ampiezza nel resto della produzione di Ellis, e aspetti nuovi che invece (peccato) nascono e muoiono qui. Tra i primi, il gioco narrativo dei punti di vista, che è un po' la "firma" di quasi tutti i libri di Ellis: una molteplicità di voci narranti che condividono ambiente sociale, legami familiari, relazioni sentimentali, diventando di volta in volta protagonisti o comparse del medesimo racconto collettivo. Tutti si conoscono tra loro, in giro incontri sempre le stesse persone (tutti ragazzi biondi, ricchi e bellissimi che non fanno altro che bere, fumare, drogarsi e scopare), e chi viene solo citato in un racconto diventa poi il centro focale del successivo: ma con l'aggiunta insidiosa di scarti descrittivi che, ad ogni nuova entrata in scena, caricano di una surrealtà via via più assurda e disgregata i ritratti di personaggi in caduta libera verso la dissoluzione.
Uno tra tutti: Bruce. Nel primo racconto (Bruce telefona da Mulholland) è un ragazzo ricco e sballato al centro di una storia di promiscuità omo-eterosessuale, che telefona a un terzo amico per fare due chiacchiere e un po' di sesso telefonico. Nell'ultimo (Allo zoo con Bruce), lo ritroviamo sposato, ma anche legato a una ragazza con cui sta passando una giornata allo zoo: solo che, mentre i due sono intenti a guardare le zebre e la ragazza sta cercando di capire se Bruce lascerà o no sua moglie, lui all'improvviso le afferra le mani e, con sguardo serio e fisso, le rivela il suo segreto:
Stammi a sentire, il mio nome è Yocnor, provengo dal pianeta Arachanoid che è situato in una galassia che la terra non ha ancora scoperto e probabilmente mai scoprirà. Sono sul tuo pianeta da quattrocentomila anni, secondo il vostro calcolo del tempo, e sono stato mandato qui per raccogliere dati che ci permetteranno di conquistare e distruggere tutte le altre galassie esistenti, compresa la vostra... So che ti riuscirà difficile crederlo, ma per una volta, ti sto dicendo la verità. Non ne parleremo più.
Acqua dal sole è tutto così: tu sei lì che leggi e tutto sembra scorrere stanco e ripetitivo, finché a un certo punto Ellis ribalta il tavolo e te lo tira in faccia. Alla frastornante dichiarazione di Bruce, poi, la ragazza allo zoo reagisce nell'unico modo possibile nell'universo ellisiano:
... quando usciamo dallo zoo e lui mette in moto la mia BMW rossa, sento di continuare ad aver fiducia in quest'uomo.
Non potrebbe essere altrimenti: quando si vive in un universo illogico, incomprensibile e in assoluta, inarrestabile e perfetta dissoluzione, comportarsi in modo disgregato è l'unica soluzione percorribile. L'assurdo diventa l'unica realtà esistente, i comportamenti dissociati sono la norma, ci si aggrappa a ciò che si trova, e non importa se si tratta di una sostanza fluida e mutaforma che di volta in volta assume l'aspetto di un bastone, un serpente, una siringa piena di eroina. Questa è la Los Angeles di Acqua dal sole: una città arroventata da un perenne e ottundente calor bianco che ti costringe a socchiudere gli occhi perché non ti esploda la testa. E con gli occhi socchiusi, ciò che vedi è ogni volta diverso.
Ma è soprattutto una città che fagocita in sé ogni personaggio. Una sorta di parassita esterno che annulla emozioni e sentimenti, assorbendo tutti i suoi abitanti in un magma colloso di straniante e impietosa anaffettività. In questo senso, Lettere da Los Angeles costituisce la lente oscurata attraverso cui leggere tutta la narrativa losangelina di Ellis. Per la fredda ferocia con cui Ellis descrive il progressivo, inesorabile annientamento della personalità di Anne, seguito passo passo attraverso le lettere che la ragazza scrive a Sean da Los Angeles senza mai ricevere risposta, il racconto fa quasi paura. Leggerlo è come assistere alla morte di una persona da dietro un vetro, senza poter intervenire, osservando gli infermieri che, immobili ai lati del letto, ne osservano il progressivo svanire con espressione muta e impassibile:
Los Angeles è un altro pianeta... Mi ci sto abituando, ma provo ancora una certa angoscia...
Los Angeles è un luogo decisamente eccitante e la mia depressione se ne è andata...
Sono stanca di trascorrere notti dopo notti negli stessi club e di starmene accanto alla piscina a farmi tutta quest'incredibile cocaina...
C'è qualcosa di lussuoso e di meraviglioso nel fatto di vivere a Los Angeles. Sento che è così che vorrei vivere sempre. Ogni giorno c'è una nuova avventura, qualche nuova persona con cui parlare...
Ho l'impressione di non tenerci più molto...
La freddezza clinica con cui Ellis traccia l'inconsapevole perdita di identità di Anne è la cifra di fondo di tutti i racconti: la potenza da cui trae origine la rappresentazione del disagio e dell'isolamento nei testi della raccolta ci svela un autore che sta affilando le sue armi per richiamare sulla novità della propria opera tutti i riflettori della scena letteraria. Un autore che, all'epoca, voleva turbarci e sconvolgerci e violentarci l'anima con la sua personale versione della cura Ludovico, buttandoci in faccia secchiate di indifferenza autodistruttiva. Non ancora, insomma, l'autore destinato a diventare "il tizio che prova a scrivere come Bret Easton Ellis".
Ed è parecchio bizzarro che Acqua dal sole venga pubblicato proprio nella fase di transizione tra i due momenti. Quella che separa l'Ellis di American Psycho da quello di Glamorama.
Quando Ellis, all'inizio degli anni '90, stava lavorando a Glamorama, ormai poteva scordarsi di scrivere pagine in cui il senso imminente della fine di tutto fosse così doloramente congiunto con la sensazione di ineluttabilità che permea Sulla spiaggia, un racconto su una ragazza che sta per morire di cancro ("Immaginati un cieco che stia sognando"); o di rendere il delirante straniamento psicotico di Scoprendo il Giappone, in cui la rockstar Bryan Metro passa il tempo a drogarsi, violentare cameriere e rimpiangere il proprio fallimento di uomo ("E mi rendo conto che da ognuno di noi si esige la perdita di ogni senso della realtà per delle aspettative così irragionevoli che si diviene fatalisti anche se, in realtà, ce la si potrebbe fare"); o di fare il vuoto assoluto intorno a un personaggio, come succede al protagonista di Un'altra zona grigia, che perde il padre in un incidente aereo, se ne frega e continua la sua vita prigioniero della totale solitudine emotiva delle proprie insulse relazioni personali.
E poi c'è l'inattesa e spiazzante svolta horror di alcuni dei racconti: una sottotraccia splatter-vampiresca che affiora qua e là lungo tutta la raccolta (quando si menzionano certi efferatissimi e inspiegabili delitti avvenuti in città e nel deserto) e incentra un intero racconto (I segreti dell'estate) sulla figura di un vampiro losangelino a cui piace rimorchiare ragazze giovani (molto giovani) nei locali notturni, per poi andare da un analista per parlare delle proprie visioni apocalittiche. Così veniamo a sapere che, nel disegno originale della Los Angeles di Ellis, c'erano anche i vampiri – una legione di vampiri – e che i loro comportamenti, le loro tendenze autodistruttive e la sete di sangue che li muoveva non erano così diversi da quelli che ritroviamo rimodellati nella figura di Patrick Bateman.
Peccato che, tra le molte vittime di Bateman, ci sia stato anche il suo creatore.
Luca Pantarotto
@HoldenCompany
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