Alessio Piras e Nicola Campostori, pronti per il dialogo sul noir... |
(NICOLA CAMPOSTORI)
Qualche tempo fa Alessio Piras, col quale condivido il ruolo di redattore per Critica Letteraria, mi scrisse a proposito di un commento che avevo pubblicato riguardo a La città dell'oblio di René Frégni: le mie considerazioni sul noir avevano stimolato in lui curiosità e voglia di confrontarsi sul tema. Piras ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Discipline Umanistiche presso l'Università di Pisa. Attualmente è membro di un gruppo di ricerca dell'Universitat Autònoma di Barcellona, traduttore free-lance e scrittore. Dopo aver letto il suo romanzo d'esordio, Omicidio in Piazza Sant'Elena (F.lli Frilli Editori, 2016), gli ho posto alcune domande ed è cominciato uno scambio di mail nel quale abbiamo riflettuto assieme sul noir.
“Continuo a non capire che cosa sia esattamente il noir”: concludeva così Umberto Eco un suo articolo su L'Espresso di qualche anno fa. Ecco: diciamo che se non ce l'ha fatta lui, difficilmente riuscirò io nell'impresa! Scherzi a parte, partiamo dalla ricerca di una definizione del genere. Nella nostra prima conversazione via mail, alla mia domanda su cosa faccia di un libro un noir, tu mi hai detto:
Una risposta univoca non c'è. Tuttavia, credo che il noir, a differenza del poliziesco di fine ottocento, metta in mostra il caos e i lati oscuri della nostra società senza risolverli. Mentre uno Sherlock Holmes riportava ordine, risolvendo un rebus, nella stantia Inghilterra vittoriana, un Sam Spade non può far altro che prendere atto dell'impossibilità materiale di salvare l'uomo dalla sua rovina.
Sono d'accordo: nel giallo, espulso il problema, tutto torna come prima (visione rassicurante), nel noir invece si scoperchia il male e si constata la sua presenza in tutti gli uomini. Nulla a quel punto può tornare come prima. Da questo punto di vista potremmo allora considerare il noir più "interessante", perché meglio capace di mettere in discussione ciò che diamo per scontato, ma ciò ovviamente non significa che non ci siano gialli superbi, a partire dai classici ma anche esempi contemporanei. Sono semplicemente due generi diversi.
Trovo che ultimamente si tenda troppo ad etichettare come noir qualsiasi libro abbia un vago accenno al delitto, o soltanto atmosfere cupe. In realtà alla fine non è così importante stabilire il genere di un romanzo, però a volte mi sembra una forzatura. Seguendo questo andazzo, molte tragedie shakespeariane potrebbero essere considerate noir.
La vita e' solo un'ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopo di che non si sente più nulla. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla
Cosa c'è di più noir di questa frase del Macbeth? Mi chiedo allora: ci sono caratteristiche specifiche che distinguono il noir da altri generi altrettanto cupi o che riflettono sul caos? La presenza di un delitto, o della violenza in generale?
(ALESSIO PIRAS)
Partiamo da Eco che come sempre coglie(va) nel segno. Impossibile capire cosa sia un noir, eppure è una categoria ampiamente utilizzata e ampiamente conosciuta. Credo che la definizione di noir sia cambiata nel tempo e, soprattutto, sia sfuggita di mano a chi studia la letteratura per essere dominata da editori e scrittori. Inizialmente il noir era un romanzo poliziesco che Gallimard pubblicava nella collana série noire che si caratterizzava per la copertina nera. E in questa collezione si pubblicava Maigret, che non ha nulla di Sam Spade, ma ha dato molto a quello che oggi consideriamo noir. Come per il giallo, quindi, forse è meglio dire che non è mai stata una categoria appannaggio degli studiosi, dei critici e dei ricercatori. Forse per questo per Eco è un qualcosa di nebuloso. Tuttavia ci sono alcune caratteristiche comuni a quelli che sono i noir considerati capostipiti: un delitto che rompe l'ordine del mondo e un'indagine che, risolvendo l'enigma, mostra che il mondo non si può salvare. Le atmosfere cupe fanno da scenario a questo disincanto che contraddistingue il detective/commissario, che normalmente è l'alter ego dell'autore. In questo caso l'indagine dello scrittore attraverso la scrittura del mondo reale è del tutto parallela a quella dell'investigatore nella finzione. E qui cogliamo un punto affascinante del noir che lo accomuna al grande romanzo americano del '900. Ma, chi sono i padri dei vari Pepe Carvalho? Sam Spade e Philip Marlowe, che, in realtà, appartengono a un sotto-genere del poliziesco ben preciso: l'hard-boiled. E l'hard-boiled ha una variante molto suggestiva, una caratteristica che spesso attrae i lettori: il punto di vista del cattivo, del criminale. Il noir contemporaneo sonda il male dalla parte del male. In Italia l'esempio più brillante è Carlotto, con Ciao, amore ciao, Il turista, ma anche la saga dell'Alligatore, giacché Marco Buratti è un criminale dotato di un'etica ben precisa. A fianco e spesso convivente di questa variante vi sono le narrazioni più pulp, che mettono in scena anche dialoghi intermediali, con il fumetto, per esempio, e qui mi riferisco a Sin city. Insomma, il noir è un fenomeno letterario estremamente complesso. Credo, quindi, che quello che oggi definiamo noir non sia altro che l'evoluzione di un sotto-genere che è arrivato a costituire genere a sé. Ma è mutevole e non ha contorni ben delineati. Come fai ben notare, un Macbeth può avere tinte noir e sicuramente il noir più intellettuale si nutre di questo tipo di influenze. Non dimentichiamoci che i grandi noiristi del '900 erano uomini colti, forse un po' ubriachi, ma con alle spalle solide letture classiche.
Secondo me, poi, è necessario fare una distinzione:
1) da un lato credo che l'etichetta noir sia un espediente commerciale, buono, anzi buonissimo, per gli editori, ma se andiamo al fondo della questione la maggior parte dei titoli che gli editori inseriscono in collane noir alla fine non sono noir e, viceversa, molti titoli che vanno in altri scaffali alla fine sono noir. Il Macbeth che citi ne è un esempio.
2) dall'altro lato, nel dibattito accademico internazionale quello italiano è universalmente conosciuto come giallo, anche nelle sue versioni più oscure e malinconiche. Perché comunque il giallo ha caratteristiche diverse dal noir, che è francese, dalla negra spagnola, dal polar nord europeo, eccetera. Al centro di queste narrazioni c'è un'indagine (privata o poliziesca) e un ambiente principalmente oscuro, "sporco", disordinato e ipocrita. E con la scusa dell'indagine, lo scrittore affronta temi sociali e di attualità. Cosa che lo distingue dal poliziesco classico, anche quello estremamente brillante di Conan Doyle e Poe. Per darti un'idea dell'esigenza di mantenere vigente l'etichetta giallo ti faccio l'esempio de Il giorno della civetta: non è un noir, ma non è neanche un poliziesco classico. È talmente brillante e incisivo per quanto riguarda l'Italia degli anni '60 da trovarsi in una zona grigia (Scerbanenco è molto più facilmente classificabile, per esempio). Di fatto, per comodità, questi testi così peculiari sono quelli che si considerano i classici del giallo italiano a livello internazionale.
(NC)
Poniamo, come suggerisci, l'indagine al centro delle narrazioni noir e gialle: una prima distinzione tra i due generi potrebbe allora essere che l'indagine classica poliziesca nel giallo è fine a se stessa, mentre nel noir rimanda sempre a qualcos'altro; il delitto diventa quasi uno strumento per parlare della società, o dell'animo umano. Alla luce di queste considerazioni, come consideri il tuo romanzo? Guido Vitiello parla di giallo come di “gioco enigmistico”, una sfida lanciata dall'autore ai lettori per risolvere il caso; in Omicidio in Piazza Sant'Elena, a mio parere, questa sfida è in secondo piano e ciò lo avvicina più al noir che al giallo. Non dico che la risoluzione del delitto sia insignificante, ma credo che la presa sul lettore avvenga per altri motivi, il suo interesse viene catturato grazie ai personaggi e alla descrizione così sentita di Genova. Oltre, ovviamente, allo stile, che io ho trovato molto piacevole. Nonostante sia evidente che il delitto serve a tracciare una panoramica più ampia, faccio fatica a definire il tuo libro noir, perché non è abbastanza “oscuro”: certo, mostra aspetti sociali ed umani negativi, solleva interrogativi dando risposte pessimistiche, ma non è efferato né vira mai su toni veramente neri. I protagonisti, tra l'altro, senza essere supereroi mantengono comunque un carattere positivo, non hanno chiaroscuri. Secondo te sono giuste queste considerazioni? È corretto aspettarsi dal noir un cuore di tenebra, oppure è un mio preconcetto e quella è solo una delle tante declinazioni che il genere può avere?
(AP)
Durante la presentazione a Barcellona di Omicidio in Piazza Sant’Elena, Sergi Sancho Fibla ha rilevato che i miei investigatori non sono degli outsider ubriaconi che vivono al margine della società. E in effetti è vero e credo che questo commento vada nella stessa direzione della tua domanda. Quando questa estate Roberto Centazzo mi chiese in che genere metterei il mio romanzo non ho potuto dare una risposta chiara. Ma questo è un po' il grande problema dei generi con confini apparentemente netti come il noir (insieme alla fantascienza, l'horror, il fantasy, ecc.). Io più che scrivere un noir, ho scritto un romanzo che del noir riprende alcuni clichée e li mescola con altre cose. Patrizia Poli, che ha pubblicato un acutissimo commento al romanzo, scrive che, ad esempio, rispetto al noir, qui non è tanto il commissario che indaga, quanto uno scholar, un ricercatore in filosofia. Che poi per me altro non è che un detective della natura dell'uomo. La sfida al lettore qui passa in secondo piano, ma questo è abbastanza comune nel noir contemporaneo: allo stesso tempo vero è che né Pagani né Lorenzo sono personaggi lugubri, con un passato torbido o con qualche particolare scheletro nell'armadio. Sono uomini, figli di un'epoca senza rivoluzioni, coscienti di vivere nel tempo della resistenza: alla stupidità in primo luogo (e qui cito un mio docente, a cui in parte Lorenzo si rifà). Ecco, io credo che questa resistenza silenziosa è davvero il filo rosso che unisce i due personaggi e che mi ha spinto a scrivere.
Dal noir è lecito aspettarsi atmosfere buie, sporche, torbide, ambigue. Perché i grandi autori del genere insegnano questo. Ma è anche vero che forse di tutto quello che si definisce noir, solo un 10% di quello che si pubblica rientra davvero nella categoria. Del resto, quello dei confini del genere è un lavoro che si fa sempre meno nelle università e sempre più nelle case editrici. Ho molto rispetto per il lavoro dell'editore, in particolare del mio, Carlo Frilli, ma è un mestiere diverso da quello dello studioso della letteratura. E molti studiosi oggi si piegano alle regole di mercato. Tu mi dirai, anche tu. E probabilmente hai ragione, ma nei miei scritti accademici, nelle mie recensioni mai vedrai chiamare noir qualcosa che noir non è. Semmai sono finito in una collana noir, ma non c'erano alternative e alla fine non si sta così male. Tutto sta ad essere onesti con se stessi e coscienti di quanto si scrive.
Non credo, infine, che sia un tuo preconcetto. Guarda Carlotto e la saga dell'Alligatore. Si tratta di noir in piena regola, anzi, ora, con la saga Pellegrini e Il turista, Massimo è ancora più noir perché osserva il mondo con gli occhi dell'assassino. Ma Carlotto è, secondo me, nel panorama italiano un'eccezione, insieme a Manzini e forse a Morchio. Per esempio Camilleri: la saga Montalbano non è noir, è un poliziesco sulla scorta di quello sciasciano, ma molto meno intellettuale, e abbastanza simile a Maigret. Nonostante il richiamo a Vázquez Montalbán, Salvo Montalabano ha ben poco di Pepe Carvalho.
(NC)
Manzini lo sto recuperando in questi giorni con colpevole ritardo (d'altronde non si può stare dietro a tutto quello che varrebbe la pena approfondire!). Lui offre sicuramente un personaggio ambiguo, un poliziotto che non lesina azioni opinabili e addirittura apertamente illegali. Ma la struttura dei suoi romanzi mi sembra più ascrivibile al giallo che al noir: c'è un'indagine e in qualche modo il detective arriva a scoprire come si sono svolti i fatti. Schiavone è un personaggio molto interessante, umano, ricco di contraddizioni, ma ritorno a ciò che ho detto prima a proposito del tuo romanzo: qui i delitti non sono mai simbolo delle storture più grandi della società, o almeno non è quello l'intento principale di Manzini (che comunque va a toccare temi come la criminalità organizzata e la violenza sulle donne, ma senza farli prevalere sulla storia raccontata). Finito il romanzo, Aosta è pronta ad accogliere una nuova indagine, ricominciando sempre da capo. Sei d'accordo?
(AP)
Sì sono d'accordo, anche se Manzini ha lavorato moltissimo sul passato di Schiavone, che vive in pieno disincanto. È uno dei personaggi più disincantati del panorama italiano. Forse nei romanzi emerge meno, forse è più evidente nei racconti che sono un po' la genesi del vicequestore perché narrano i mesi prima del trasferimento ad Aosta. E la Roma che fa da sfondo è proprio quella Roma anti-ufficiale e anti-goethiana cantata dal poeta spagnolo Rafael Alberti nel volumetto Roma, peligro para caminantes. È una Roma sporca, buia, corrotta, ma non stereotipata.
(NC)
Nel tuo saggio «Cronache del disincanto. Una comparazione tra Manuel Vázquez Montalbán e Bruno Morchio», scritto per la rivista Altre modernità, mi sembra che analizzando i due scrittori ti concentri sul carattere “sociale” del noir. Anche nel tuo libro prevale quest'aspetto: si parla moltissimo del mutamento che sta subendo Genova, che abbandona a poco a poco la sua storia, e che peggiora lentamente nei suoi servizi pubblici, governata dalla “peggiore sinistra del Paese”. Un ragionamento simile viene fatto per Barcellona, tra la chiusura dei negozietti tipici e l'omologazione commerciale dei grandi marchi e delle catene: “Negli anni aveva visto Barcellona trasformarsi in un parco a tema per turisti inglesi e tedeschi alla ricerca del calore e degli odori del Mediterraneo”. Nonostante si percepisce che ci tieni molto alla questione, secondo me sei riuscito a non trasformare il tuo libro in un romanzo a tesi, appesantendolo con tirate fuori luogo, e ad inserire la critica sociale in maniera efficace e pertinente. Nelle tue pagine si racconta la condizione dei ricercatori universitari in Italia (Lorenzo, il protagonista, è un “cervello in fuga”) ed in generale dell'università del nostro Paese. Un concetto che esprime anche Niccolò, un collega di Lorenzo: in università si può lottare per cambiare le cose ma resta il sospetto che sia inutile. Immagino, tra l'altro, che questo sia in parte un aspetto autobiografico, vero?
(AP)
Barcellona e Genova sono due città che negli ultimi 30 anni hanno sofferto mutamenti profondi. Entrambe hanno provato a trasformarsi ed entrambe, a mio avviso, hanno in parte fallito. Ciononostante, la capitale catalana in questo momento è di gran lunga più vivace del capoluogo ligure, ma, allo stesso tempo, ha rinunciato a quella bellezza decadente e magnetica che caratterizza Genova. Barcellona è stata mangiata e risucchiata dal turismo, trovare l'autentico spirito della città non è semplice e non sempre piace quello che si trova. Perché catalani e liguri si somigliano tremendamente: chiusi e un po' taccagni, non amano molto il contatto con l'esterno. E mediterranei: con quell'aria un po' da chissenefrega ciondolano per le loro città alla ricerca di non si sa bene cosa. Il genovese mangia focaccia e vino bianco, il catalano pa amb tomaquet e vermut. Il resto son varianti dello stesso menù, ed è sorprendente come alle volte qui mi senta a casa, mi senta a Genova. Luoghi così suggestivi sono però stati governati e amministrati da politiche che hanno pensato più ai propri interessi, che in alcuni casi hanno coinciso con quelli della città, ma che in molti altri sono andati in direzioni opposte. Tuttavia, la mala gestione della cosa pubblica non deve, né può, cancellare quello che queste città sono e rappresentano. Anzi, ciò che sono e rappresentano deve essere lo stimolo per mettere in moto la messa in discussione dello status quo, che poi è l'obiettivo principale, a livello di critica sociale, di questo tipo di narrazione.
Cambiando argomento, l'università italiana versa in una condizione lamentabile. Si tratta di un sistema estremamente rigido e ingessato. Non vi è alcun segnale che possa cambiare in futuro ed è terribilmente arretrato rispetto agli altri sistemi universitari europei e mondiali. Inoltre soffre di un tremendo provincialismo che fa sì che un ricercatore italiano per l'accademia italiana esiste solo se lavora in Italia. Questo in termini generali di sistema, poi ogni docente fa storia a sé e le eccezioni ci sono, ma sono sempre più isolate e assomigliano ogni giorno di più, drammaticamente, a dei don Chisciotte che lottano contro i mulini a vento.
Durante la presentazione a Barcellona di Omicidio in Piazza Sant’Elena, Sergi Sancho Fibla ha rilevato che i miei investigatori non sono degli outsider ubriaconi che vivono al margine della società. E in effetti è vero e credo che questo commento vada nella stessa direzione della tua domanda. Quando questa estate Roberto Centazzo mi chiese in che genere metterei il mio romanzo non ho potuto dare una risposta chiara. Ma questo è un po' il grande problema dei generi con confini apparentemente netti come il noir (insieme alla fantascienza, l'horror, il fantasy, ecc.). Io più che scrivere un noir, ho scritto un romanzo che del noir riprende alcuni clichée e li mescola con altre cose. Patrizia Poli, che ha pubblicato un acutissimo commento al romanzo, scrive che, ad esempio, rispetto al noir, qui non è tanto il commissario che indaga, quanto uno scholar, un ricercatore in filosofia. Che poi per me altro non è che un detective della natura dell'uomo. La sfida al lettore qui passa in secondo piano, ma questo è abbastanza comune nel noir contemporaneo: allo stesso tempo vero è che né Pagani né Lorenzo sono personaggi lugubri, con un passato torbido o con qualche particolare scheletro nell'armadio. Sono uomini, figli di un'epoca senza rivoluzioni, coscienti di vivere nel tempo della resistenza: alla stupidità in primo luogo (e qui cito un mio docente, a cui in parte Lorenzo si rifà). Ecco, io credo che questa resistenza silenziosa è davvero il filo rosso che unisce i due personaggi e che mi ha spinto a scrivere.
Dal noir è lecito aspettarsi atmosfere buie, sporche, torbide, ambigue. Perché i grandi autori del genere insegnano questo. Ma è anche vero che forse di tutto quello che si definisce noir, solo un 10% di quello che si pubblica rientra davvero nella categoria. Del resto, quello dei confini del genere è un lavoro che si fa sempre meno nelle università e sempre più nelle case editrici. Ho molto rispetto per il lavoro dell'editore, in particolare del mio, Carlo Frilli, ma è un mestiere diverso da quello dello studioso della letteratura. E molti studiosi oggi si piegano alle regole di mercato. Tu mi dirai, anche tu. E probabilmente hai ragione, ma nei miei scritti accademici, nelle mie recensioni mai vedrai chiamare noir qualcosa che noir non è. Semmai sono finito in una collana noir, ma non c'erano alternative e alla fine non si sta così male. Tutto sta ad essere onesti con se stessi e coscienti di quanto si scrive.
Non credo, infine, che sia un tuo preconcetto. Guarda Carlotto e la saga dell'Alligatore. Si tratta di noir in piena regola, anzi, ora, con la saga Pellegrini e Il turista, Massimo è ancora più noir perché osserva il mondo con gli occhi dell'assassino. Ma Carlotto è, secondo me, nel panorama italiano un'eccezione, insieme a Manzini e forse a Morchio. Per esempio Camilleri: la saga Montalbano non è noir, è un poliziesco sulla scorta di quello sciasciano, ma molto meno intellettuale, e abbastanza simile a Maigret. Nonostante il richiamo a Vázquez Montalbán, Salvo Montalabano ha ben poco di Pepe Carvalho.
(NC)
Manzini lo sto recuperando in questi giorni con colpevole ritardo (d'altronde non si può stare dietro a tutto quello che varrebbe la pena approfondire!). Lui offre sicuramente un personaggio ambiguo, un poliziotto che non lesina azioni opinabili e addirittura apertamente illegali. Ma la struttura dei suoi romanzi mi sembra più ascrivibile al giallo che al noir: c'è un'indagine e in qualche modo il detective arriva a scoprire come si sono svolti i fatti. Schiavone è un personaggio molto interessante, umano, ricco di contraddizioni, ma ritorno a ciò che ho detto prima a proposito del tuo romanzo: qui i delitti non sono mai simbolo delle storture più grandi della società, o almeno non è quello l'intento principale di Manzini (che comunque va a toccare temi come la criminalità organizzata e la violenza sulle donne, ma senza farli prevalere sulla storia raccontata). Finito il romanzo, Aosta è pronta ad accogliere una nuova indagine, ricominciando sempre da capo. Sei d'accordo?
(AP)
Sì sono d'accordo, anche se Manzini ha lavorato moltissimo sul passato di Schiavone, che vive in pieno disincanto. È uno dei personaggi più disincantati del panorama italiano. Forse nei romanzi emerge meno, forse è più evidente nei racconti che sono un po' la genesi del vicequestore perché narrano i mesi prima del trasferimento ad Aosta. E la Roma che fa da sfondo è proprio quella Roma anti-ufficiale e anti-goethiana cantata dal poeta spagnolo Rafael Alberti nel volumetto Roma, peligro para caminantes. È una Roma sporca, buia, corrotta, ma non stereotipata.
(NC)
Nel tuo saggio «Cronache del disincanto. Una comparazione tra Manuel Vázquez Montalbán e Bruno Morchio», scritto per la rivista Altre modernità, mi sembra che analizzando i due scrittori ti concentri sul carattere “sociale” del noir. Anche nel tuo libro prevale quest'aspetto: si parla moltissimo del mutamento che sta subendo Genova, che abbandona a poco a poco la sua storia, e che peggiora lentamente nei suoi servizi pubblici, governata dalla “peggiore sinistra del Paese”. Un ragionamento simile viene fatto per Barcellona, tra la chiusura dei negozietti tipici e l'omologazione commerciale dei grandi marchi e delle catene: “Negli anni aveva visto Barcellona trasformarsi in un parco a tema per turisti inglesi e tedeschi alla ricerca del calore e degli odori del Mediterraneo”. Nonostante si percepisce che ci tieni molto alla questione, secondo me sei riuscito a non trasformare il tuo libro in un romanzo a tesi, appesantendolo con tirate fuori luogo, e ad inserire la critica sociale in maniera efficace e pertinente. Nelle tue pagine si racconta la condizione dei ricercatori universitari in Italia (Lorenzo, il protagonista, è un “cervello in fuga”) ed in generale dell'università del nostro Paese. Un concetto che esprime anche Niccolò, un collega di Lorenzo: in università si può lottare per cambiare le cose ma resta il sospetto che sia inutile. Immagino, tra l'altro, che questo sia in parte un aspetto autobiografico, vero?
(AP)
Barcellona e Genova sono due città che negli ultimi 30 anni hanno sofferto mutamenti profondi. Entrambe hanno provato a trasformarsi ed entrambe, a mio avviso, hanno in parte fallito. Ciononostante, la capitale catalana in questo momento è di gran lunga più vivace del capoluogo ligure, ma, allo stesso tempo, ha rinunciato a quella bellezza decadente e magnetica che caratterizza Genova. Barcellona è stata mangiata e risucchiata dal turismo, trovare l'autentico spirito della città non è semplice e non sempre piace quello che si trova. Perché catalani e liguri si somigliano tremendamente: chiusi e un po' taccagni, non amano molto il contatto con l'esterno. E mediterranei: con quell'aria un po' da chissenefrega ciondolano per le loro città alla ricerca di non si sa bene cosa. Il genovese mangia focaccia e vino bianco, il catalano pa amb tomaquet e vermut. Il resto son varianti dello stesso menù, ed è sorprendente come alle volte qui mi senta a casa, mi senta a Genova. Luoghi così suggestivi sono però stati governati e amministrati da politiche che hanno pensato più ai propri interessi, che in alcuni casi hanno coinciso con quelli della città, ma che in molti altri sono andati in direzioni opposte. Tuttavia, la mala gestione della cosa pubblica non deve, né può, cancellare quello che queste città sono e rappresentano. Anzi, ciò che sono e rappresentano deve essere lo stimolo per mettere in moto la messa in discussione dello status quo, che poi è l'obiettivo principale, a livello di critica sociale, di questo tipo di narrazione.
Cambiando argomento, l'università italiana versa in una condizione lamentabile. Si tratta di un sistema estremamente rigido e ingessato. Non vi è alcun segnale che possa cambiare in futuro ed è terribilmente arretrato rispetto agli altri sistemi universitari europei e mondiali. Inoltre soffre di un tremendo provincialismo che fa sì che un ricercatore italiano per l'accademia italiana esiste solo se lavora in Italia. Questo in termini generali di sistema, poi ogni docente fa storia a sé e le eccezioni ci sono, ma sono sempre più isolate e assomigliano ogni giorno di più, drammaticamente, a dei don Chisciotte che lottano contro i mulini a vento.
(NC)
In un flashback negli anni '90 parli del primo governo Berlusconi e della sua “non rivoluzione liberale […] la prima Repubblica era morta e non si capiva ancora bene da cosa la si doveva distinguere dalla seconda”. In effetti nel tuo saggio affermi che l'esplosione del noir in Spagna e Italia è avvenuta in due momenti di presunto cambiamento che hanno generato una illusione politica e sociale puntualmente tradita: la Transizione democratica dopo la morte di Franco (1975) e l'avvento della II Repubblica (1992). Citando Mari Paz Balibrea sostieni che il noir diventa “uno spazio abitabile” per la critica dello status quo, un meccanismo di resistenza, che è quanto hai confermato nelle precedenti risposte. In «Cronache del disincanto…» sostieni che questa funzione di resistenza viene assolta dal noir grazie all'impianto investigativo della narrazione e all’ossessione principale degli investigatori protagonisti dei romanzi, la “verità reale”, che distingui da quella “istituzionale”. Ma allora ti faccio una domanda provocatoria: dando per scontato che in Occidente ha vinto il capitalismo e che quindi il potere ha connotati ben precisi e orientamenti politici piuttosto omogenei in tutti gli Stati, il noir occidentale contemporaneo è intimamente di sinistra? Ti vengono in mente esempi di destra? Se in qualche modo il noir si schiera contro il potere vigente, allora solo laddove quest'ultimo ha connotati di sinistra (penso alla Russia stalinista, alla Cina, a certi Stati sudamericani) il genere può svilupparsi come critica “da destra”? Potremmo comunque discutere se schierarsi contro l'oppressione, di qualunque sia il suo colore, sia un atteggiamento ascrivibile in maniera così semplicistica ad una parte politica, ma senza addentrarci troppo in questioni che esulano dal discorso letterario, mi piacerebbe ragionare con te di questa natura politica del noir.
In un flashback negli anni '90 parli del primo governo Berlusconi e della sua “non rivoluzione liberale […] la prima Repubblica era morta e non si capiva ancora bene da cosa la si doveva distinguere dalla seconda”. In effetti nel tuo saggio affermi che l'esplosione del noir in Spagna e Italia è avvenuta in due momenti di presunto cambiamento che hanno generato una illusione politica e sociale puntualmente tradita: la Transizione democratica dopo la morte di Franco (1975) e l'avvento della II Repubblica (1992). Citando Mari Paz Balibrea sostieni che il noir diventa “uno spazio abitabile” per la critica dello status quo, un meccanismo di resistenza, che è quanto hai confermato nelle precedenti risposte. In «Cronache del disincanto…» sostieni che questa funzione di resistenza viene assolta dal noir grazie all'impianto investigativo della narrazione e all’ossessione principale degli investigatori protagonisti dei romanzi, la “verità reale”, che distingui da quella “istituzionale”. Ma allora ti faccio una domanda provocatoria: dando per scontato che in Occidente ha vinto il capitalismo e che quindi il potere ha connotati ben precisi e orientamenti politici piuttosto omogenei in tutti gli Stati, il noir occidentale contemporaneo è intimamente di sinistra? Ti vengono in mente esempi di destra? Se in qualche modo il noir si schiera contro il potere vigente, allora solo laddove quest'ultimo ha connotati di sinistra (penso alla Russia stalinista, alla Cina, a certi Stati sudamericani) il genere può svilupparsi come critica “da destra”? Potremmo comunque discutere se schierarsi contro l'oppressione, di qualunque sia il suo colore, sia un atteggiamento ascrivibile in maniera così semplicistica ad una parte politica, ma senza addentrarci troppo in questioni che esulano dal discorso letterario, mi piacerebbe ragionare con te di questa natura politica del noir.
(AP)
Io credo che il noir, molto semplicemente, sia extraparlamentare e sia in una posizione critica rispetto al pensiero omogeneo dominante. Non conosco il noir russo, quindi non posso dirti se la critica lì viene da destra. Ma sono sicuro che viene da posizioni marginali. Ragioniamo sui due autori su cui ho lavorato in «Cronache del disincanto…». Manuel Vázquez Montalbán era iscritto al PSUC, il Partito Socialista Unificato di Catologna, durante il franchismo, quindi in clandestinità. Non so se mi spiego, era un outsider puro e duro. Pepe Carvalho è un personaggio che vive ai margini della società della Transizione: è stato in carcere durante il regime, il suo aiutante l'ha conosciuto in carcere, è fidanzato con una prostituta del barrio chino. Ma attenzione: la Transizione spagnola si chiude con il trionfo del PSOE di Felipe González, eppure l'atteggiamento critico di Vázquez Montalbán rimane intatto. Viene da sinistra, è vero, ma da un sinistra che sta fuori dalle istituzioni. E c'è di più, mi pare in Los mares del sur, Carvalho si lamenta del fatto che con l'avvento della democrazia la morale era più lasciva e quindi lui aveva perso clienti perché ormai se una moglie tradiva il marito non era più così scandaloso da dover assumere un detective huelebraguetas (sniffa-mutandine). Veniamo a Morchio, che ha una storia personale diversa da Vázquez Montalbán per una semplice ragione: è vissuto sempre in democrazia, ma ha fatto il 1968, a Genova, e a Genova ha visto gli anni di piombo, dalla Facoltà di Lettere, dove insegnava un grande petrarchista e brigatista, Fenzi. Bacci Pagano è il suo doppio, il suo alter ego, e cosa fa Morchio? Lo manda in carcere per terrorismo con un'accusa ingiusta e lo fa difendere da un avvocato comunista della Genova bene. Cosa succede? Che l'esperienza della prigione apre a Bacci Pagano le porte del disincanto, come a Carvalho, e lo rende un outsider. Ma come dico nel saggio meno outsider di Carvalho. Ciò risulta evidente anche dal fatto che il personaggio di Morchio lascia aperta una porta sul futuro, esplicitata dalla presenza della figlia Aglaja. La speranza nel domani è, invece, assente nella saga Carvalho che forse da questo punto di vista rappresenta il disincanto più puro. C'è anche un altro elemento importante: il migliore amico di Bacci Pagano è il vicequestore Totò Pertusiello, uno sbirro, un uomo dello Stato che l'investigatore stima. Pepe Carvalho non ha alcun rapporto con le forze di polizia. Il noir è, quindi, un genere estremamente politico e politicamente schierato fuori dalle istituzioni e solo così riesce a portare avanti quella critica sociale che tanto lo caratterizza.
Io credo che il noir, molto semplicemente, sia extraparlamentare e sia in una posizione critica rispetto al pensiero omogeneo dominante. Non conosco il noir russo, quindi non posso dirti se la critica lì viene da destra. Ma sono sicuro che viene da posizioni marginali. Ragioniamo sui due autori su cui ho lavorato in «Cronache del disincanto…». Manuel Vázquez Montalbán era iscritto al PSUC, il Partito Socialista Unificato di Catologna, durante il franchismo, quindi in clandestinità. Non so se mi spiego, era un outsider puro e duro. Pepe Carvalho è un personaggio che vive ai margini della società della Transizione: è stato in carcere durante il regime, il suo aiutante l'ha conosciuto in carcere, è fidanzato con una prostituta del barrio chino. Ma attenzione: la Transizione spagnola si chiude con il trionfo del PSOE di Felipe González, eppure l'atteggiamento critico di Vázquez Montalbán rimane intatto. Viene da sinistra, è vero, ma da un sinistra che sta fuori dalle istituzioni. E c'è di più, mi pare in Los mares del sur, Carvalho si lamenta del fatto che con l'avvento della democrazia la morale era più lasciva e quindi lui aveva perso clienti perché ormai se una moglie tradiva il marito non era più così scandaloso da dover assumere un detective huelebraguetas (sniffa-mutandine). Veniamo a Morchio, che ha una storia personale diversa da Vázquez Montalbán per una semplice ragione: è vissuto sempre in democrazia, ma ha fatto il 1968, a Genova, e a Genova ha visto gli anni di piombo, dalla Facoltà di Lettere, dove insegnava un grande petrarchista e brigatista, Fenzi. Bacci Pagano è il suo doppio, il suo alter ego, e cosa fa Morchio? Lo manda in carcere per terrorismo con un'accusa ingiusta e lo fa difendere da un avvocato comunista della Genova bene. Cosa succede? Che l'esperienza della prigione apre a Bacci Pagano le porte del disincanto, come a Carvalho, e lo rende un outsider. Ma come dico nel saggio meno outsider di Carvalho. Ciò risulta evidente anche dal fatto che il personaggio di Morchio lascia aperta una porta sul futuro, esplicitata dalla presenza della figlia Aglaja. La speranza nel domani è, invece, assente nella saga Carvalho che forse da questo punto di vista rappresenta il disincanto più puro. C'è anche un altro elemento importante: il migliore amico di Bacci Pagano è il vicequestore Totò Pertusiello, uno sbirro, un uomo dello Stato che l'investigatore stima. Pepe Carvalho non ha alcun rapporto con le forze di polizia. Il noir è, quindi, un genere estremamente politico e politicamente schierato fuori dalle istituzioni e solo così riesce a portare avanti quella critica sociale che tanto lo caratterizza.
(NC)
Forse allora possiamo dire che il nucleo politico del noir, a prescindere dalla connotazione destra-sinistra, sia la concezione del potere come macchina della finzione e fonte di ingiustizia: l'esercizio del potere per sua natura impone la spettacolarizzazione, comportando quindi sempre una dose di menzogna, ed esclude sempre qualcuno, i marginali cui appunto il noir vuole dare voce. Mi vengono in mente i fool shakespeariani che, in tutt'altro genere, sono personaggi che non hanno alcun potere (non incidono nella trama) e che per questo, essendo gli unici fuori dal “gioco sociale”, sono i soli a poter smascherare la natura teatrale del potere e a dar voce a visioni ad esso alternative.
Ritornando al noir, il rapporto tra la verità ufficiale e la verità nascosta si declina spesso in una contro-indagine per accertare fatti che sono stati insabbiati per non nuocere i potenti: nel tuo libro la Pm vuole archiviare rapidamente il caso per non creare scandali. C'è però una speranza nelle forze di polizia: se nel tuo saggio indicavi Pertusiello, il vicequestore della saga di Bacci Pagano, come esempio di “poliziotto buono” che, in un contesto generale di rigurgito fascista (siamo nella Genova del post-G8), adempie al suo dovere nel solco costituzionale. Anche nel tuo libro troviamo poliziotti buoni, primo fra tutti il commissario Andrea Pagani. Questo personaggio è consapevole che col suo lavoro arresta solo i pesci piccoli, anzi: “pescavano acciughe, ma del tonno neanche l'ombra”. I criminali veri, gli intrallazzatori ad alti livelli, sono altri e restano intoccabili.
Forse allora possiamo dire che il nucleo politico del noir, a prescindere dalla connotazione destra-sinistra, sia la concezione del potere come macchina della finzione e fonte di ingiustizia: l'esercizio del potere per sua natura impone la spettacolarizzazione, comportando quindi sempre una dose di menzogna, ed esclude sempre qualcuno, i marginali cui appunto il noir vuole dare voce. Mi vengono in mente i fool shakespeariani che, in tutt'altro genere, sono personaggi che non hanno alcun potere (non incidono nella trama) e che per questo, essendo gli unici fuori dal “gioco sociale”, sono i soli a poter smascherare la natura teatrale del potere e a dar voce a visioni ad esso alternative.
Ritornando al noir, il rapporto tra la verità ufficiale e la verità nascosta si declina spesso in una contro-indagine per accertare fatti che sono stati insabbiati per non nuocere i potenti: nel tuo libro la Pm vuole archiviare rapidamente il caso per non creare scandali. C'è però una speranza nelle forze di polizia: se nel tuo saggio indicavi Pertusiello, il vicequestore della saga di Bacci Pagano, come esempio di “poliziotto buono” che, in un contesto generale di rigurgito fascista (siamo nella Genova del post-G8), adempie al suo dovere nel solco costituzionale. Anche nel tuo libro troviamo poliziotti buoni, primo fra tutti il commissario Andrea Pagani. Questo personaggio è consapevole che col suo lavoro arresta solo i pesci piccoli, anzi: “pescavano acciughe, ma del tonno neanche l'ombra”. I criminali veri, gli intrallazzatori ad alti livelli, sono altri e restano intoccabili.
(AP)
In polizia lavorano uomini e donne, come noi. Per questa ragione è possibile incontrarvi di tutto. Ricordo la scorsa primavera di aver sbirciato per sbaglio dentro un furgone anti sommossa dei Mossos d'Esquadra (la polizia catalana) e aver scorto 3 ragazzi in divisa scherzare e parlare di Liga, con una sciarpa del Barça legata a un poggiatesta, un portafortuna. Per dire: scene di ordinaria normalità. Pagani è uno tra tanti, ma ha un senso molto alto della giustizia e soprattutto non si accontenta della verità che le indagini possono rivelare. È consapevole del fatto che più di tanto non può fare e il disincanto io credo nasca esattamente dallo scarto tra giustizia e verità, tra sogno e realtà. È uno sbirro con esperienza che ha percorso tutta la Penisola da sud a nord facendo il suo mestiere e ha visto decine di soldati del crimine finire nel tritacarne della giustizia per essere sostituiti il giorno dopo. Il punto è che il mostro si uccide dalla testa e la testa è il più delle volte inarrivabile: Pagani lo sa e ci fa i conti tutti i giorni. Sa che se anche arrivasse alla verità, non potrebbe dimostrarla o, se avesse le prove, verrebbe ostacolato e allontanato. Ti faccio un esempio pratico: nel finale di La soledad del manager Pepe Carvalho scopre chi è il mandante dell'omicidio, quindi arriva al colpevole. Ma non lo denuncia perché sa che sarebbe inutile, perché non è importante la giustizia, mandare in galera il delinquente, ciò che conta è la verità. Nel caso di Carvalho ciò assume connotati forti perché, a differenza di Pagano che lavora con Pertusiello, l'eroe di Vázquez Montalbán si attiene al suo incarico e rende conto SOLO al suo cliente e non alla società. La società è senza alcuna speranza. Tuttavia, non è da confondersi con il nichilismo o il pessimismo cosmico: Carvalho ci sguazza in questo brodo di amoralità e decadenza.
(NC)
In che senso?
(AP)
Nel senso che Carvalho non potrebbe vivere in una realtà diversa: si sente completamente deresponsabilizzato. Non deve niente al mondo che lo circonda, non sente il peso di una missione per salvare la società della Barcellona di quegli anni. In un certo senso tira a campare e osserva il suo circostante con occhio disincantato. Senza illusioni.
.... il dialogo continua! Vi aspettiamo tra due settimane!
In polizia lavorano uomini e donne, come noi. Per questa ragione è possibile incontrarvi di tutto. Ricordo la scorsa primavera di aver sbirciato per sbaglio dentro un furgone anti sommossa dei Mossos d'Esquadra (la polizia catalana) e aver scorto 3 ragazzi in divisa scherzare e parlare di Liga, con una sciarpa del Barça legata a un poggiatesta, un portafortuna. Per dire: scene di ordinaria normalità. Pagani è uno tra tanti, ma ha un senso molto alto della giustizia e soprattutto non si accontenta della verità che le indagini possono rivelare. È consapevole del fatto che più di tanto non può fare e il disincanto io credo nasca esattamente dallo scarto tra giustizia e verità, tra sogno e realtà. È uno sbirro con esperienza che ha percorso tutta la Penisola da sud a nord facendo il suo mestiere e ha visto decine di soldati del crimine finire nel tritacarne della giustizia per essere sostituiti il giorno dopo. Il punto è che il mostro si uccide dalla testa e la testa è il più delle volte inarrivabile: Pagani lo sa e ci fa i conti tutti i giorni. Sa che se anche arrivasse alla verità, non potrebbe dimostrarla o, se avesse le prove, verrebbe ostacolato e allontanato. Ti faccio un esempio pratico: nel finale di La soledad del manager Pepe Carvalho scopre chi è il mandante dell'omicidio, quindi arriva al colpevole. Ma non lo denuncia perché sa che sarebbe inutile, perché non è importante la giustizia, mandare in galera il delinquente, ciò che conta è la verità. Nel caso di Carvalho ciò assume connotati forti perché, a differenza di Pagano che lavora con Pertusiello, l'eroe di Vázquez Montalbán si attiene al suo incarico e rende conto SOLO al suo cliente e non alla società. La società è senza alcuna speranza. Tuttavia, non è da confondersi con il nichilismo o il pessimismo cosmico: Carvalho ci sguazza in questo brodo di amoralità e decadenza.
(NC)
In che senso?
(AP)
Nel senso che Carvalho non potrebbe vivere in una realtà diversa: si sente completamente deresponsabilizzato. Non deve niente al mondo che lo circonda, non sente il peso di una missione per salvare la società della Barcellona di quegli anni. In un certo senso tira a campare e osserva il suo circostante con occhio disincantato. Senza illusioni.
.... il dialogo continua! Vi aspettiamo tra due settimane!