di Grazia Deledda
Ilisso, 1996
Prefazione e cura di Giovanna Cerina
Prima edizione: 1996
pp. 376
€11 (cartaceo);
€ 4.99 (ebook)
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“Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne, ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo, ho mille e mille volte appoggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce, per ascoltare la voce delle foglie, ciò che raccontava l’acqua corrente; ho visto l’alba, il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne; ho ascoltato i canti e le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo, e così si è formata la mia arte, come una canzone od un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”
In questa lunga citazione scelta da Giovanna Cerina per chiudere l’interessante prefazione al primo volume delle novelle deleddiane pubblicate da Ilisso, c’è, in fondo, tutta l’essenza della scrittrice nuorese e di quanto il lettore si accingerà a scoprire in queste pagine. Come dicevo a proposito di Annalena Bilsini, ho scoperto solo di recente la produzione letteraria di Deledda, a cui mi sono avvicinata con un misto di pregiudizio e curiosità che ha presto lasciato il posto alla sorpresa di trovarsi di fronte ad un romanzo così pieno di passione, spunti di riflessione, l’attenzione alla costruzione psicologica dei personaggi, e che si discosta dall’immagine di “sardità” cui siamo abituati a pensare l’opera deleddiana. Con questo volume, che riunisce le prime quattro raccolte di novelle pubblicate tra il 1890 e il 1898, l’incanto non si ripete esattamente uguale, la lettura si fa, a tratti, più faticosa per la prevedibilità di alcune storie e una lingua ancora acerba: ma, va ricordato, sono le prime prove letterarie di una Deledda ventenne, gli anni della formazione intellettuale e personale, l’esercizio linguistico, la ricerca di stile ed argomenti propri, lo sviluppo progressivo della forma breve via via più matura, articolata. Nelle quattro raccolte qui presentate, quindi, è possibile rintracciare tematiche, spunti, soggetti, che saranno fondamentali nei romanzi a venire e intravedere lo sviluppo letterario dell’autrice, alla prova con un genere, la forma breve, a cui si dedicherà parallelamente al romanzo per tutta la vita. Se l’opera di Deledda è stata oggetto, soprattutto negli ultimi anni, di rinnovato interesse da parte di critica e pubblico, la produzione breve per molto tempo non ha goduto della stessa attenzione, almeno fino al 2007 quando, ottant’anni dopo l’assegnazione del premio Nobel di cui la scrittrice nuorese era stata insignita, alla produzione novellistica è stato dedicato il convegno “Dalla quercia del monte al cedro del Libano”, svoltosi presso la facoltà di Lettere di Cagliari: tre giorni interamente incentrati sulla discussione intorno alla narrativa breve di Deledda e sull’importanza di tale forma nella produzione letteraria della scrittrice, cui hanno preso parte studiosi e scrittori italiani ed internazionali, tra cui la stessa Cerina, curatrice dei sei volumi pubblicati da Ilisso nel 1996 di tutte le novelle.
Le raccolte qui riunite rappresentano, quindi, quasi un decennio di scrittura: Nell’azzurro, la prima raccolta, pubblicata nel 1890, composta da cinque novelle; Racconti sardi, tre opere del 1894; L’ospite, la terza raccolta, del 1897; ed infine Le tentazioni, la più complessa e matura delle quattro presentate, comprendente novelle scritte tra il 1894-95 e una – quella del titolo – del 1898.
Dalla lettura in ordine cronologico risulta evidente, come si è detto, la costruzione di una personale dimensione letteraria, ancora tesa fra incertezze – formali e tematiche – , desiderio di sperimentazione, suggestioni regionali ed apertura a correnti italiane ed europee, mentre ricorrono tematiche e spunti molte delle quali saranno poi riprese ed approfondite nei romanzi che verranno.
Pur nelle differenze che contraddistinguono ogni novella, ogni raccolta, è possibile riscontrare elementi di comunanza tra le opere presentate a partire dalla profondo legame regionale: la Sardegna, nei suoi paesaggi, nella lingua, nel costume, rivive in questi scritti quasi tutti ambientati nella terra natia dell’autrice, che diviene la vera protagonista delle storie, in tutte le sue sfumature. Nuoro e la regione della Barbagia, i luoghi e le città più lontane dell’isola, il mondo rurale o i piccoli paesi, prendono vita sulla pagina caratterizzando l’opera tutta con quella “sardità”, si diceva, cui spesso Deledda è stata identificata ma che ha anche saputo rendere estremamente letteraria, svincolandola dai limiti di un’identità regionale pur conservandone tutta l’autentica originalità. È in queste raccolte la Sardegna di pastori e piccoli borghesi, di tancas – i possedimenti terrieri – e banditi, di duro lavoro e tentazioni, gente semplice e desideri misurati, di cui lo sguardo della scrittrice si sofferma su particolari del quotidiano improvvisamente interrotto da eventi fuori dall’ordinario a comporre la trama ma, soprattutto, rivelando l’attenzione di Deledda per l’aspetto folcloristico: interesse che risulta evidente nelle descrizioni minuziose di costumi ed usi locali, dell’abbigliamento, dei nomi e modalità espressive dei personaggi, nella rappresentazione di antiche superstizioni e leggende che si mescolano alla fede.
Nania indossava un costume della parte di Ozieri, donde era nativo zio Gavinu Faldedda, ma conservava il fazzoletto disteso come le campidanesi. Il corsetto, di broccato molto consunto, veniva allacciato sul davanti da una molteplice incrociatura di stringa rossa, e così senza maniche talari della camicia, abbottonate ai polsi. La sottana e il grembiale erano semplicissimi, d’indiana oscura, e Nania non aveva altro ornamento che una piccola collana di corallessa intorno al sottile collo gentile. Era scalza e a testa nuda e recava un boccale d’acqua nella camera dell’ingegnere. (Il padre)
Tra natura, lavoro e solitudini, Deledda mette in scena drammi famigliari, racconti di amori che nascono, amicizie, gelosie, desideri, storie di vendetta o perdono, dall’epilogo spesso drammatico e non perfettamente definito. Storie più lunghe, dalla trama articolata, si alternano a frammenti, episodi, mentre l’invenzione letteraria si mescola al dato autobiografico, la tendenza al plurilinguismo a caratterizzare l’opera tutta.
Delle quattro raccolte qui riunite, Nell’azzurro è, senza dubbio, la più acerba: le cinque novelle scelte risentono, come sottolineato da Cerina, dell’influenza di schemi caratteristici del romanzo d’appendice di cui la Deledda era, in quegli anni giovanili, avida lettrice; la narrazione, le tematiche affrontate, le modalità espressive, sono piuttosto convenzionali, destinate ad un pubblico giovanile. Non mancano, tuttavia, spunti abbastanza interessanti: intanto, un certo gusto per la sperimentazione con cui di racconto in racconto la giovane scrittrice si mette alla prova nella ricerca di punto di vista, tipologia di narratore e forma più adatti, dalla prima alla terza persona, tra novella e frammento, episodi e ricordi. Lo stile, si diceva, è ancora profondamente incerto, le descrizioni di paesaggi e uomini piuttosto convenzionali, dal gusto spiccatamente romantico:
Io ero felice, felicissima di rivedere la mia terra natia e se fossi arrivata nelle ore calde e lucenti del giorno, quando il sole splendente sul cielo di oro illumina tutto, ogni masso, ogni filo di erba, avrei anch’io riso e parlato coi miei compagni di viaggio; ma arrivando in quell’ora mesta del crepuscolo, quando l’ombra tremula della sera vela le cose, e dà loro un aspetto di infinita e melanconica bellezza; quando i profili dei paesaggi si disegnano, bruni, bruni, sullo sfondo trasparente del cielo splendido come una lastra di smeraldo, mi sentivo infinitamente triste [...]. (La casa paterna)
Sono storie di avventura, misteri non troppo tali, ricordi e nostalgie, di cui colpisce la profonda malinconia, il senso di solitudine che le attraversa come, per esempio, in Memorie infantili o La casa paterna, ma in generale adatte a soddisfare il gusto del pubblico al quale erano destinate.
A partire dalla seconda raccolta, Racconti sardi, l’evoluzione tematica e strutturale si fa più evidente, così come l’interesse per il mondo rurale sardo esemplificato fin dal titolo. È la Sardegna, si è detto, di misteri, colpi di scena, gelosie e desideri di vendetta, di superstizioni e fede, che rivive in racconti come Il mago o La dama bianca, in cui l’elemento fantastico è predominante; ma anche ritratti di una femminilità quasi diabolica, intrigante, di amori, inganno, disonore e sete di vendetta:
Nessun fremito di paura o di esitazione passava in quei cuori induriti da una vita aspra e stentata, che avevano per religione la vendetta, l’odio per Dio. Una notte essi avevano giurato, intorno a quello stesso focolare, su quel medesimo fuoco che mai non si spegneva, di lavare col sangue l’offesa ricevuta, e, attesa per mesi ed anni, finalmente giungeva l’ora sognata. (Di notte)
L’invenzione letteraria si intreccia all’aneddoto, al dato storico rielaborato sulla pagina a rendere la storia più verosimile, sentimenti e momenti di vita reale contrapposti ad antiche superstizioni, rituali, dati folclorici di «una terra delle leggende, delle storie cruente e sovrannaturali» (La dama bianca).
La raccolta che completa questo primo volume, Le tentazioni, con il racconto omonimo scritto nel 1898, apre alle riflessioni letterarie di una scrittrice più matura, pronta a confrontarsi con tematiche più complesse, alla continua ricerca della propria dimensione e stile personale, tra ambientazione sarda e il superamento di confini regionali che si vanno facendo forse troppo stretti. Come puntualmente sottolineato ancora una volta nella prefazione di Cerina, le novelle di quest’ultima raccolta si aprono a motivi etici (la riflessione intorno al tema della giustizia, del peccato, dell’espiazione) mentre ancora una parte predominante è data dalla rappresentazione di drammi famigliari e dall’interesse per la tradizione popolare che caratterizza significativamente l’opera deleddiana. Storie ancora costruite su colpi di scena, identità celate, misteri, superstizioni e leggende, rappresentazione di un mondo spesso crudele e violento, che non sempre punisce i colpevoli e ogni giorno mette alla prova, tra fatica e tentazioni. Sono, ancora, racconti di rapporti famigliari complessi, di un mondo rurale aspro e qualche volta perfino violento, in cui le difficoltà quotidiane sembrano più imputabili al vizio dell’uomo che alle leggi della natura, l’amicizia è messa alla prova da rivalità e gelosie, l’ambizione dei padri si scontra con le debolezze dei figli.
Mentre zio Felix pregava seduto sopra una pietra, ringraziando Santa Varvara e Sant’Elias della felicità sua e del figliuolo, il figliuolo si sentiva profondamente triste e infelice, perchè l’orizzonte lunare gli causava un prepotente desiderio di vita, una nostalgia appassionata, di cose mai vedute, di cose ignote, di cose impossibili. (Le tentazioni)
La realtà sarda progressivamente si discosta dal gusto per il sovrannaturale delle novelle precedenti, la Storia – della cui mancanza è stata spesso accusata l’opera di Deledda – entra piano piano sullo sfondo della scena, il tempo della narrazione maggiormente delineato, pur senza rinunciare al dato folcloristico, all’interesse per antiche credenze e leggende popolari. Un mondo perduto rivive in queste novelle, in cui rintracciare, quindi, spunti e temi della produzione letteraria deleddiana.
Di Debora Lambruschini
Di Debora Lambruschini
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