di Alberto Capitta
Il Maestrale, 2016
pp. 208
€16.00
L'opera di Capitta è stata salutata dai critici, sin dalla sua apparizione all'interno del panorama editoriale italiano, con benevolenza. Una scrittura in grado di mettere in atto la rappresentazione di una realtà costantemente trasfigurata dai paesaggi emotivi dei personaggi che vi si muovono, i quali, lungi dall'essere mere funzioni del racconto, si manifestano come emanazione della stessa, determinandone al contempo le qualità intrinseche. Il loro passato, i loro destini (quelli che si concretizzano e coincidono con gli assi narrativi del romanzo e quelli che, potenziali e irrealizzabili, vivono sotto forma di “specchio in negativo” di ognuno di essi) si fondono con la natura e con gli spazi urbani, ne riflettono i desideri, la soggettività dello sguardo e i moti dell'animo. Le specificità degli uni si manifestano come inscindibili dagli altri: la chiave di ogni momento topico dell'esistenza appare risiedere nella donazione di una parte del sé al fine di accogliere l'alterità, non importa se umana, animale o vegetale, una forma di silenzio autoindotto che è anche ascolto, profondo, di ciò che avviene all'interno del proprio personalissimo palcoscenico e delle creature che, in questo modo, possono calcarlo.
L'abilità nel ritagliare uno spazio-tempo a parte – un cerchio magico che non è tanto contestualizzazione dell'azione quanto della volontà, da parte dei personaggi, di “farsi abitare” – in cui i protagonisti hanno la capacità di divincolarsi dalle pressanti esigenze di fabula e intreccio, può essere addotta all'esperienza di Capitta come regista, attore e autore di testi teatrali. Arte della recitazione e tecnica letteraria si definiscono qui come territori dai confini labili e, passando per un attimo a un ulteriore livello interpretativo, persino la pagina bianca diventa proscenio in cui gli elementi del romanzo recitano se stessi mostrando impudichi allo sguardo del lettore gli ingranaggi della macchina narrativa, palesando a tratti la finzione che li tiene uniti.
Dal punto di vista strettamente contenutistico i riferimenti al “mettere in scena” costellano l'opera dello scrittore sassarese: si tratta di vere e proprie pièce teatrali che si realizzano e hanno la loro ragion d'essere proprio quando si manifesta più prepotentemente la frattura, il punto di non ritorno, tra i personaggi e il contesto sociale di provenienza. In Creaturine, palcoscenico e caleidoscopica scenografia di Nicola, nel suo errare lontano dalle tappe obbligate del vivere comune, sono la natura, le macerie di una casupola in mezzo alla campagna, il fiume, il suo stesso corpo. Il suo formidabile pubblico è invece costituito dalle bestie, dagli alberi, da quella solitudine che lo rende contemporaneamente un eletto e un condannato. Ne Il giardino non esiste, Flora, Carmen e Innocenza assaporeranno, nel fragile e conflittuale spazio scenico delle mura domestiche, un poco dell'anima l'una dell'altra grazie a un repentino scambio di ruoli, al ribaltamento delle identità.
Perché trasfigurarsi e trasfigurare (e quale mezzo migliore di venire incontro a quell'urgenza, così umana, di una propria narrazione, se non la letteratura?) sono atti rivoluzionari, in grado di smarrire volontariamente le certezze, e di farci ripartire da zero. O meglio, di farci ripartire dall'altro.
E trasfigurazione è la parola chiave attorno a cui ruota quest'ultimo libro dello scrittore sardo, che questa volta affonda esplicitamente lo sguardo in quel mondo che, più di tutto, ha formato il suo approccio con la lettera scritta: quello teatrale. Lo fa dando corpo all'irrequietezza, un poco imbranata, di Ferdinand Lieber, figlio di una famiglia olandese che ha tutta l'aria di averlo desiderato come "rimpiazzo" dell'omonimo primogenito prematuramente defunto. Stranito dal vedere il proprio nome inciso su una lapide e pervaso dal senso di inadeguatezza, Ferdinand volge la bizzarra realtà che vive a proprio vantaggio, in modo da plasmarsi una via di fuga: ogni volta che si stanca di essere così ordinariamente se stesso, lacera la propria identità e immagina di essere quell'altro, il morto che non ha mai conosciuto, di contemplare ogni cosa con gli occhi “nuovi” del resuscitato.
E trasfigurazione è la parola chiave attorno a cui ruota quest'ultimo libro dello scrittore sardo, che questa volta affonda esplicitamente lo sguardo in quel mondo che, più di tutto, ha formato il suo approccio con la lettera scritta: quello teatrale. Lo fa dando corpo all'irrequietezza, un poco imbranata, di Ferdinand Lieber, figlio di una famiglia olandese che ha tutta l'aria di averlo desiderato come "rimpiazzo" dell'omonimo primogenito prematuramente defunto. Stranito dal vedere il proprio nome inciso su una lapide e pervaso dal senso di inadeguatezza, Ferdinand volge la bizzarra realtà che vive a proprio vantaggio, in modo da plasmarsi una via di fuga: ogni volta che si stanca di essere così ordinariamente se stesso, lacera la propria identità e immagina di essere quell'altro, il morto che non ha mai conosciuto, di contemplare ogni cosa con gli occhi “nuovi” del resuscitato.
L'idea di un proprio doppio adagiato nella terra, la propensione del bambino a immergersi in personaggi e universi inventati, accompagnerà la coscienza di Ferdinand sino all'età adulta e prenderà la forma di un unico impellente desiderio: quello di divenire un attore. Per questo, nonostante la vita lo abbia già ben equipaggiato per calarsi nel dignitoso ruolo di giovane avvocato impiegato in uno studio parigino, nel momento in cui riesce ad ottenere l'indirizzo dell'ex-attore Amedeo Castiglia, si presenta sulla soglia della sua abitazione allo scopo di apprenderne il mestiere.
La casa del maestro costituisce in qualche modo lo specchio, assai poco gratificante (almeno all'apparenza), di ciò che sarà l'iniziazione di Lieber. Maleodorante, sporca e fatiscente, la dimora di Castiglia è composta, o almeno così ci sembra di intuire, da numerose stanze. Quando il giovane protagonista vi si affaccia la prima volta, ciò che prova, oltre all'ingombrante imbarazzo della sua timidezza, è un profondo disgusto. Essa riflette le zone torbide dell'io, i luoghi non pacificati che è necessario visitare e con cui si deve venire a patti perché ogni metamorfosi si compia pienamente: il germoglio dell'altro ha bisogno di affiorare dall'immersione più profonda nel sé.
L'alloggio del vecchio attore si manifesta, oltretutto, come realtà capovolta: in essa, l'abitazione come luogo in cui si scandiscono i tempi regolari e abitudinari della quotidianità è profondamente negata. L'ambiente in cui si forma il famoso interprete Ferdinand Lieber è tagliato fuori dal frenetico e lineare procedere delle esistenze che vi si svolgono al di fuori. Qui, tempo e spazio sono delimitati e scanditi dalle esigenze dell'uomo che, per divenire attore, deve riapprendere a guardare, a sentire, a muoversi, ad avvertire una minuta porzione di mondo come tela bianca su cui farsi segno. Nel quale, per imparare a impersonare re e condannati, traditori e traditi, è necessario affondare nella materia di cui ognuno di essi è fatto: i sensi, innanzitutto. Riscoprire gli oggetti, il modo del corpo e dell'occhio di percorrerli, la risposta del corpo innanzi a essi. E poi navigare nelle acque profonde della coscienza, dove dal magma primordiale che ci accomuna è possibile ricostruire il volto umano di un personaggio.
La casa del maestro costituisce in qualche modo lo specchio, assai poco gratificante (almeno all'apparenza), di ciò che sarà l'iniziazione di Lieber. Maleodorante, sporca e fatiscente, la dimora di Castiglia è composta, o almeno così ci sembra di intuire, da numerose stanze. Quando il giovane protagonista vi si affaccia la prima volta, ciò che prova, oltre all'ingombrante imbarazzo della sua timidezza, è un profondo disgusto. Essa riflette le zone torbide dell'io, i luoghi non pacificati che è necessario visitare e con cui si deve venire a patti perché ogni metamorfosi si compia pienamente: il germoglio dell'altro ha bisogno di affiorare dall'immersione più profonda nel sé.
L'alloggio del vecchio attore si manifesta, oltretutto, come realtà capovolta: in essa, l'abitazione come luogo in cui si scandiscono i tempi regolari e abitudinari della quotidianità è profondamente negata. L'ambiente in cui si forma il famoso interprete Ferdinand Lieber è tagliato fuori dal frenetico e lineare procedere delle esistenze che vi si svolgono al di fuori. Qui, tempo e spazio sono delimitati e scanditi dalle esigenze dell'uomo che, per divenire attore, deve riapprendere a guardare, a sentire, a muoversi, ad avvertire una minuta porzione di mondo come tela bianca su cui farsi segno. Nel quale, per imparare a impersonare re e condannati, traditori e traditi, è necessario affondare nella materia di cui ognuno di essi è fatto: i sensi, innanzitutto. Riscoprire gli oggetti, il modo del corpo e dell'occhio di percorrerli, la risposta del corpo innanzi a essi. E poi navigare nelle acque profonde della coscienza, dove dal magma primordiale che ci accomuna è possibile ricostruire il volto umano di un personaggio.
Altro piano temporale, che si dipana parallelamente alla narrazione delle esperienze che condurranno il protagonista all'apice della propria carriera attoriale, è quello più recente che porta Lieber ad approdare su un'isola del Mediterraneo per trascorrervi un periodo di riposo e durante il quale incontrerà l'enigmatica e indomita Stella. Per il suo costituirsi come cronotopo, come luogo isolato dalla corsa a perdifiato delle faccende della vita, dalla compagine sociale, dai ruoli così rigidamente prestabiliti che ci impone, l'isola appare speculare alla casa di Castiglia, quasi a suggerirci che tra le tante maschere che indossiamo, quelle che ci rappresentano più profondamente, le più importanti, si possono dare solo al di fuori dei teatri gremiti, possono essere rintracciate solo nel microcosmo di un dialogo intimo, di un volontario esilio. Esilio che sarà originato, nel caso di Lieber, dall'inconciliabilità tra la rappresentazione che viene prima della parola e la realtà di cui si nutre, tra l'irripetibilità dell'evento – e non solo del gesto teatrale, ma dell'eccezionalità dell'emozione che caratterizza ogni essere umano – e l'iterazione: l'abisso tra genuinità ed artificiale e forzata evocazione di un'innocenza che finisce per perdersi e divenire mestiere.
Attraversare, insieme al protagonista del romanzo, le trasformazioni che daranno forma e tensione alla parabola della sua esistenza significa confrontarsi con la vertiginosa molteplicità dei quesiti sottesi al concetto di maschera e a quello di persona, e al modo non pacificato attraverso cui, a partire dalla loro etimologia, questi due termini si intersecano su territori semantici e ontologici comuni.
Non solo, L'ultima trasfigurazione di Ferdinand appare come opera imprescindibile per chi si avvicina al mondo letterario di Alberto Capitta, a una poetica che è stata inscritta in un realismo magico di matrice sarda per l'ordito labirintico che compone la tela di ogni narrazione e per la tavolozza a vivide tinte che ne nutre lo stile: questo romanzo, a ben riflettere, si costituisce quale strumento, chiave di volta e summa di un linguaggio che nasce dall'esigenza di destrutturare e superare la parola, e quindi dal gesto teatrale, per poi giungere a reinventarla. Con esiti, è il caso di dirlo, più che felici.
Non solo, L'ultima trasfigurazione di Ferdinand appare come opera imprescindibile per chi si avvicina al mondo letterario di Alberto Capitta, a una poetica che è stata inscritta in un realismo magico di matrice sarda per l'ordito labirintico che compone la tela di ogni narrazione e per la tavolozza a vivide tinte che ne nutre lo stile: questo romanzo, a ben riflettere, si costituisce quale strumento, chiave di volta e summa di un linguaggio che nasce dall'esigenza di destrutturare e superare la parola, e quindi dal gesto teatrale, per poi giungere a reinventarla. Con esiti, è il caso di dirlo, più che felici.
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