La saga dei Bojeffries
di Alan Moore e Steve Parkhouse
Traduzione di Michele Foschini
Bao Publishing, 2016
95 pag.
Immaginate una sit-com ambientata nell'Inghilterra degli anni Ottanta. Immaginate che tutto ruoti attorno a una famiglia della classe media e ai problemi quotidiani che si trova ad affrontare. Fate conto di metterci dentro tutte quelle linee narrative trite e ritrite che coccolano la nostra pigrizia e ci fanno sentire come a casa: lo speciale natalizio, la puntata con la cena aziendale del capo famiglia, quella delle vacanze, l'episodio in stile musical e quello fatta alla maniera dei reality show. Insomma, immaginate una serie televisiva come tante e al posto dei protagonisti piazzateci dei mostri. Un licantropo, un vampiro, un Grande Antico, un neonato atomico e un paio di freak che non guastano mai (il ragazzino che non invecchia, la donna più forte del mondo). Ed eccovi servita La saga dei Bojeffries, scritta Alan Moore e disegnata da Steve Parkhouse in un lasso di tempo che va dal 1986 sino al 2013.
A partire dalla struttura composta da brevi episodi autoconclusivi, Moore sembra davvero poggiare le basi di questo suo fumetto sul modello della serialità televisiva. Lo sceneggiatore copia le sit-com non tanto per sfruttarne i meccanismi e sovvertirli (cosa che avviene in maniera piuttosto blanda) quanto per renderli evidenti modelli narrativi delle nostre vite, sottolineando come la televisione possa influenzare i nostri comportamenti. I Bojeffries sembrano vivere una realtà filtrata attraverso i modi e le strutture televisive, tra ruoli da rispettare ed eventi a cui partecipare. Tutto questo per omologarsi con tutte le altre famiglie della middle-class thatcheriana che riflettono il ritratto della loro banalità sullo schermo di un televisore.
Perché la mostruosità dei Bojeffries non ha nulla al di fuori dagli schemi, non stravolge con la sua presenza le vite normali dei normali esseri umani. La mostruosità dei Bojeffries è quanto di più ordinario e omologato vi possa essere, tant'è che nessuno tra gli umani pare accorgersene. I Bojeffries lavorano, escono, vanno al supermercato e in vacanza come se nulla fosse: non sono visti con diffidenza, non sono emarginati, non sono esclusi dalla vita sociale (lo sono invece le minoranze razziali). Sono anzi omologati e perfettamente inseriti nella vita di quartiere, mostri che hanno perso impulsi e onore per accettare le pigre comodità della vita borghese, del posto fisso in fabbrica, del cibo industriale e della vita raccontata dalla televisione.
Nonostante le gag, le battute e le sequenze slapstick, c'è un'atmosfera crepuscolare nel La Saga dei Bojeffries, una specie di feroce tristezza per qualcosa di puro che si è ormai perduto. Gli outsider sono stati assorbiti dalla massa, sembrano dirci Moore, e anche questa sorta di Famiglia Addams degli anni Ottanta ha perduto il potere reazionario della propria mostruosità, trasformandosi nella più normale delle famiglie borghesi.
La satira di Alan Moore sfrutta a una prima occhiata un umorismo semplice e tradizionale (giochi di parole, slapstick), per nasconderci subito sotto la sua superficie un'ironia più cinica e spericolata. In entrambi i casi non tutto funziona: qualcosa fa ridere e qualcosa no, qualche colpo va a segno e qualcun altro invece si perde nel vuoto (come quasi tutto l'episodio inedito che chiude il volume, davvero di qualità inferiore rispetto al resto del libro).
Quelle impostate da Moore, sono due tracce di umorismo che Steve Parkhouse maneggia con grande sicurezza. Non solo la sua regia gestisce con sicurezza i momenti slapstick (praticamente perfetto l'episodio Festus: l'alba dei morti viventi) e una recitazione che, seppur sopra le righe, riesce a mantenere una sorta di realismo, ma il suo tratto è perfetto per descrivere la sedata mostruosità dei Bojeffries. Questo aspetto è chiaro soprattutto nell'episodio Vacanze estive, in cui Parkhouse ci mostra i Bojeffries in tutta la loro normalità senza disegnare mai l'evento strano e stravagante descritto da Moore nella didascalia, ma illustrando il momento antecedente o successivo al fatto, quello in cui la famiglia torna a essere immersa nella sua banalità. La saga dei Bojeffries è un lavoro minore di Moore, ma non per questo meno interessante. Pur non essendo perfetto regala discrete risate e qualche spunto di riflessione non banale.
Matteo Contin
@matteocontin
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