Naufraghi in porto
di Grazia Deledda
Ilisso, 2007
a cura di Andrea Cannas
pp. 208
€ 11,00 (ebook 4.90)
L’aspetto che più sorprende nella narrativa di Grazia Deledda è che riesce a essere sempre nuova, mai uguale a se stessa. L’impressione disarmante di chi legge Naufraghi in porto (1920), rielaborazione complessa e ponderata del suo antico Dopo il divorzio (1902), è che l’autrice sia riuscita ancora una volta a creare un intreccio non banale, seppur parzialmente prevedibile nella sua evoluzione, in cui echeggiano tonalità, che vanno dal cinismo all’ironia, inavvertite in opere precedenti.
La vicenda si avvia intorno a una situazione molto concreta: una giovane donna nel fiore dell’età, Giovanna Era, rimane sola con un bambino piccolo perché il marito, Costantino, è stato condannato a ventisette anni di reclusione per omicidio. Nell’ottica delle antiche tradizioni sarde, questo non rappresenterebbe un dilemma etico se non fosse che, negli stessi anni in cui è ambientata la vicenda, si andava dibattendo sul continente la possibilità di istituire il divorzio nei casi di sevizie, adulteri, o reati gravi che prevedessero una lunga detenzione. Questo apre, nel futuro della giovane sposa fomentata ad arte dalla madre, la possibilità di contrarre nuove nozze, magari più vantaggiose anche sotto il profilo economico.
La legge (ancora solo ipotizzata) dell’Italia moderna si viene così a scontrare violentemente con le leggi di Dio e quelle riconosciute e agite dagli uomini in una realtà ancora rurale. L’urto ideologico che contrappone umano e divino, fede e diritto, viene incarnato dalla figura stessa di Costantino, sulla cui colpevolezza pochi paiono nutrire dubbi (persino la moglie e la suocera non gli credono, benché lui continui ostinatamente a proclamare la propria innocenza); l’uomo stesso, del resto, riconosce di essersi macchiato di un peccato mortale: non già quello di cui è pubblicamente accusato, ma il fatto di aver sposato soltanto civilmente Giovanna, non potendosi permettere gli sfarzi di un matrimonio religioso, e di aver dunque concepito un figlio al di fuori della protezione della Chiesa. Dunque il crimine, l’omicidio dello zio Basilio, passa quasi in secondo piano rispetto alla colpa morale, che risulta per il detenuto qualcosa da espiare attraverso la prigionia stessa:
Egli restava ore ed ore immobile, seduto con le gambe accavallate, le mani intrecciate intorno al ginocchio; ma, cosa singolare, non disperava mai, non si ribellava mai. Era convinto di espiare il “peccato mortale”, come egli lo chiamava, di aver vissuto a lungo con una donna senza sposarla secondo la Chiesa. Sentiva sempre in fondo al cuore la certezza che un giorno o l’altro, finita l’espiazione del peccato, risulterebbe la sua innocenza e verrebbe liberato. […] E oltre che del suo dolore soffriva del dolore di Giovanna. Impeti di tenerezza e di amore lo scuotevano dalla sua immobilità pensosa: allora balzava in piedi, camminava a grandi passi, e poiché questi passi non potevano essere che due o tre, si fermava di botto, e appoggiava e premeva forte la testa sulla parete (72).
È interessante notare che, nonostante in apparenza sia rappresentato un conflitto tra due ideologie, tra il passato e il presente, tra la tradizione e la modernità, a determinare l’agire dei personaggi sono per lo più ragioni meschine, prettamente materiali: per avidità Bachisia Era spinge la figlia verso il suo benestante corteggiatore, Brontu Dejas; per avarizia l’anziana Martina Dejas incoraggia il figlio, dal momento che “Giovanna era povera, ma sana, frugale, senza pretese, e lavorava come una bestia; una donna benestante avrebbe recato il disordine e la dissipazione in casa, […] mentre Giovanna la si sposava quasi segretamente e veniva in casa come una schiava gratis” (86); quanto ai due giovani, Brontu è arrogante, vagamente stolido, e mosso da una “passione bruta”, dal cieco desiderio per ciò che non gli appartiene, mentre la ragazza pare guidata dalla debolezza della carne quanto dall’interesse: non ha pietà, per lei, Grazia Deledda, che la ritrae spesso come calcolatrice, pronta – più per istinto che per malizia – ad assumere atteggiamenti falsi e compiacenti. Anche Giacobbe Dejas, che serve in casa dei parenti più ricchi e si oppone risolutamente alle nuove nozze, è in verità mosso da un sentimento tutt’altro che nobile, il senso di colpa per una verità che verrà svelata solo nell’ultima parte del romanzo, ma che era stata suggerita già prima al lettore accorto. Unica figura realmente positiva, e come tale assente dagli snodi più biechi della trama, è Isidoro Pane, pescatore di sanguisughe, cantore di inni sacri, portatore unico di una fede sincera e priva di interessi, contento di una vita ridotta all’essenziale. A lui la scrittrice affida l’arduo compito di mediare tra la superstizione popolare e una religiosità sentita e condivisa intimamente, di incarnare ciò che di prezioso c’è nell’antico che merita di sopravvivere al moderno. Lui solo pare essere immune da quell’unità di intenti che accomuna grettamente ricchi e poveri, cittadini e contadini, nell’Italia del primo Novecento: “con la sua intuizione primitiva [zia Porredda] intuiva che l’anima delle selvatiche ospiti e l’anima dei suoi civili discendenti era ammorbata dallo stesso male: l’avidità del denaro” (123).
Il racconto si sviluppa lungo un arco cronologico piuttosto esteso, evidenziato a più riprese dalle continue determinazioni temporali (“E il tempo passò: venne l’autunno e venne l’inverno”, “l’inverno passò e un giorno di marzo”, “ritornò l’estate”, “e venne l’autunno”, “circa tre anni dopo la sua condanna, una mattina in sul finire dell’estate”, “l’autunno si inoltrava”, “quell’inverno”, e così avanti): l’obiettivo è forse quello di dimostrare la pervicacia (in questo caso controvalore, più che virtù) dei caratteri umani, che permangono immutati, ostinatamente attaccati alle proprie debolezze, mentre i legami si stringono e si disfano e le stagioni si avvicendano. Se Brontu e Giovanna, Bachisia e Martina rimangono piccoli esseri umani, Isidoro e Costantino rimangono belle persone, personaggi persistentemente positivi. È l’impotenza, non la sofferenza, a cambiare e corrompere quest’ultimo nel momento del suo ritorno al paese natale: inserito forzosamente in un contesto che non sente più familiare, incapace di venire a patti con sentimenti che prova disperatamente a nascondere, finisce per sentirsi un naufrago in balia delle onde (“non scorgeva riva, non vedeva la fine della sua inutile lotta: e l’acqua fredda e il gorgo del vuoto lo inghiottivano lentamente”). Per capire dove sia il porto che l’autrice promette nel titolo, bisogna arrivare fino in fondo. E, anche a quel punto, condizionati da uno sguardo deleddiano caustico e disincantato, non riusciamo a capire bene se quello che attenderà i naufraghi a terra sarà la salvezza o l’estrema perdizione.
Carolina Pernigo
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