Il Salotto - tra gli ingranaggi del Mulino di Amleto con Valerio Callieri


Dopo aver recensito il suo romanzo di esordio per Feltrinelli, "Teorema dell'incompletezza", abbiamo raggiunto telefonicamente l'autore, Valerio Callieri, per farci dire qualcosa in più sul libro, per entrare meglio "nella bottega dello scrittore" e, soprattutto, per capire fino in fondo come si sta "tra gli ingranaggi del Mulino di Amleto". In più proponiamo in anteprima uno stralcio del romanzo:

Il fantasma del padre

L'odore dei giorni evapora dalle lenzuola sudate e accartocciate.
Il materasso scivola via dalla schiena e vengo esonerato dalle leggi di gravità.
I suoi passi pesanti, come quando ero bambino e sentivo che si alzava di notte. Forse era il suo momento libero per riflettere sul passato, per ingoiare il non detto? Adesso sento il borbottio che fanno le sue labbra nel trattenere il fumo e soffiarlo fuori come un minuscolo tappo di un minuscolo champagne che viene agitato e sturato. Intravedo la sua figura imponente, i baffi scuri, l'anello d'oro sul dito indice, il cappotto di montone (un po' troppo invernale per confonderlo con uno sconosciuto che adesso passeggia per casa),gli occhiali portati sulla leggera stempiatura e una benda a chiazze rossastre a fasciargli la mano. Si sposta dal mio campo visivo e, sotto il soffitto che frana via in coriandoli, appare un altro paesaggio fastidiosamente brillante per i miei occhi stanchi.
Mi vedi?, dice mio padre. Io percepisco solamente sagome e bagliori. Ascolto soffi e bisbigli dei vivi senza capire nulla. I vivi sono i miei fantasmi.
Non so nemmeno quanto è passato da quando sono morto. Un'ora, venti anni, una settimana?
Bisogna lasciare la nostra storia alla terra.



Partiamo dall’inizio (collegandoci allo stralcio del suo libro che abbiamo deciso di proporre): prima ancora di incominciare con il romanzo, lei scrive, nel “famoso” elenco puntato di pagina nove: “Quando sento pronunciare la parola fantasma, metto subito mano alla pistola”. Questa frase, soprattutto se la si legge alla luce della storia che ha scritto, appare molto affascinante, addirittura misteriosa: perché ha voluto iniziare proprio così il “Teorema dell’incompletezza”?

La prima pagina è stata concepita come una specie di teaser cinematografico, ovvero dare un'idea vaga ma abbastanza completa di quanto poi si andrà a trattare nel libro, senza svelare nulla ma dando le informazioni principali. Si è voluto dare, diciamo, una traccia: poi lo svolgimento inizia sul serio nella pagina successiva.

Anche se ufficialmente il volume deve ancora uscire (sarà in libreria a partire da lunedì 12 gennaio, ndr) già in vari blog e siti specializzati si parla molto di queste cosiddette epifanie del, giustappunto, fantasma del padre al figlio, in un gioco che in molti hanno ribattezzato “un Amleto romano”. Ora, al di là della francamente gretta definizione (e anche un po’ stantia), c’è un riferimento, più o meno velato, all’opera shakespeariana o comunque quanto “peso specifico” ha tale fenomeno nell’economia del libro?

Domanda che per me riveste un grande fascino, che mi dona un'eco molto forte. C'è un innegabile ascendente narrativo che muove da Amleto anche e soprattutto a livello emotivo/emozionale, in particolar modo per le caratteristiche proprie del personaggio: ovvero quella sostanziale malinconia di fondo ma anche la pervicace ironia, l'ascendenza tragica e quell'eterna indeterminatezza che contraddistingue il personaggio letterario. A questo proposito, dopo aver realizzato il libro, ho letto Il mulino di Amleto, quell' "adelphaccio cattivo " di Giorgio de Santillana. Ecco confesso che prima di approcciarmi a quel testo proprio non sapevo che la figura mitica di Amleto e del suo mulino sia una degli archetipi di numerosissime civiltà e popoli, anche molto distanti e differenti tra di loro. Ecco tutto ciò non ha fatto che corroborare la mia scelta stilistica. 

Il suo libro vede due principali scenari, diciamo così, spaziali: ovvero Roma, una Roma sempre abbastanza popolare e popolaresca (ma non voglio usare “di borgata” altrimenti la domanda suonerebbe già più stucchevole di quanto, forse, sia) e Torino, sempre borghese ed elegante. Come mai proprio queste due città (senza dimenticare le parentesi in Valsusa) e come mai ha dato questi caratteri così antitetici ai due “soggetti” (ammesso e non concesso le due città abbiano tali connotati)?

A dire la verità in sede di piano narrativo non avevo pensato così, nel senso che ho utilizzato Roma e Torino perché, banalmente, sono due città che conosco molto bene, dove sono nato e dove ho vissuto. Detto questo, senza voler sfociare nella sociologia urbana, è chiaro ed evidente siano due città molto differenti tra di loro, con Roma nella quale tutto viene inglobato, tutto viene disturbato, tutto viene fagocitato dal suo essere eterno centro di potere, con i suoi abitanti sempre pronti alla risata e allo scherno, alle volte anche in maniera violenta. Mentre Torino, molto più aristocratica, che come ha ben scritto Revelli in un libro di qualche anno, Lavorare in Fiat è una città "minerale che attende una forza in grado di metterla in moto" è davvero diversa da Roma. 

Per costruire i personaggi di questo libro, molti dei quali, anche quelli minori profondi e ricchi di sfaccettature, quanto ci ha impiegato? Voglio dire la costruzione e del protagonista e di tutti gli altri quanto ha occupato del tempo che ha utilizzato per realizzare, ma mi piacerebbe dire costruire, la struttura narrativa?

Non so quantificare il tempo spiccio di lavoro ma quello che posso dire è che una delle mie intenzioni era quella di donare dignità e profondità letteraria ad ogni personaggio rivestisse un ruolo di un certo peso (in certi casi anche minimo) all'interno del mio romanzo. Cioè non amo particolarmente quei libri in cui c'è un autore che riversa il proprio stile, il proprio essere in ogni singolo personaggio, dal protagonista, come in un certo qual modo è logico sia, ma anche nel suo avversario e così con tutti. Ecco io ho tentato, ma francamente non so fino a che punto vi sia riuscito, di caratterizzare al massimo ogni personaggio, dandogli propri e ben precisi connotati. 

Perché non ha messo l’articolo determinativo nel titolo del libro? Per differenziarlo dall’omonimo teorema di Kurt Gödel o c’è un altro motivo specifico?

Non c'è una ragione precisa, semplicemente sentivo che suonasse meglio così, senza articolo!

Mi ha molto colpito il continuo rimando, anzi dondolio, tra dimensione privata (sia del protagonista sia degli affetti e delle persone che ruotano attorno ad esso) e dimensione più o meno pubblica, rappresentata dalle numerose citazioni, che poi entrano direttamente nel “gioco letterario”, di grandi fatti, più o meno noti, più o meno misteriosi, più o meno risolti, della Storia, con la rigorosa S maiuscola, italiana: dall’immediato Dopoguerra con il Piano Marshall fino, sostanzialmente, al G8 di Genova. È una cosa voluta questo “gioco al rimpiattino” tra interno ed esterno, oppure è funzionale dal punto di vista letterario, l’utilizzo e la citazione dei grandi fatti per raccontare un “piccolo fatto privato”?

La storia italiana, come penso dalle pagine del libro si sia capito, mi interessa in maniera particolare. Sicuramente ho amato il fatto che i personaggi siano immersi nel periodo storico ma questo non dev'essere, almeno me lo auguro, il pretesto per dei bozzetti di maniera, ovvero per pedine di un gioco più grande di loro, nel quale tutto si sacrifica per "la causa storico". No io spero che i personaggi abbiano una "vita propria", indipendentemente dal personaggio entro la quale si muove. Detto questo la Storia con la s maiuscola riveste un grande ruolo, è inutile negarlo.


Per ritornare al discorso di prima, se non direttamente Amleto, tuttavia pare evidente come la trilogia dell’Orestea di Eschilo (anche se sarebbe più corretto dire della “tetralogia incompleta) sia una sorta di suo “nume tutelare”…

Penso che questa domanda sia proprio diretta gemmazione della precedente, ovvero quello su Omero. L'indeterminatezza del personaggio di Shakespeare è infatti agli antipodi rispetto al decisionismo, alla volontà, alla ferrea volontà di portare a compimento la propria missione, leggasi destino, dell'eroe greco, del protagonista della tragedia eschilea. Questa dicotomia l'ho ritrovata poi, in un saggio di Harold Bloom letto dopo la fine del romanzo, in cui si mettevano sui due poli opposti questi due autori.

Tempo fa, magari l’ha anche letti, sono usciti una serie di articoli su IL, il mensile de “Il Sole 24 ore” in cui si parlava del cosiddetto GRA, ovvero del Grande Romanzo Americano alla, giusto per intenderci, “Underworld” di DeLillo, con le sue specifiche connotazioni (grande stile, grande storia, grande respiro): i giornalisti comparavano queste opere con esempi italiani, di più o meno validi epigoni, dimostrando, almeno a loro giudizio, come il GRI, il Grande Romanzo Italiano, nonostante sia inseguito da molti, non è mai stato raggiunto, con tentativi spesso goffi e tristemente magniloquenti (molto simile alla “protervia dietro il velo dell’umiltà” di cui lei parla all’inizio del libro) - se non nel caso de I Vicerè di De Roberto. Ecco lei quando ha scritto “Teorema dell’incompletezza” era mosso da una sorta di voglia, di anelito di realizzare un GRI, un Grande Romanzo Italiano oppure le direttive erano differenti, se non contrarie?

Rispondo subito dicendo che no, non c'era questa intenzione ma apprezzo il fatto che sia risuonato quest'eco di storicità. Ovvero io amo i cosiddetti romanzi-mondo, alla Wallace tanto per capirsi, in cui magari si vede oggettivamente una certa non cesellatura di determinati passaggi ma dove la grandiosità dell'opera supera tutto e tutti. Non posso negare di avere letto e leggere ancora adesso Proust e Musil ma, detto ciò, il mio augurio se è quello da un lato di non schiacciare tutto sotto il mio volere artistico, dall'altro non vorrei essere schiacciato nella dimensione iper-citazionista e nel voler bagnare a tutti i costi i miei personaggi con i cangianti colori della Storia.

Ad un certo punto lei scrive: “Ho paura, mi sento debole e non capisco. E mi manca mio padre e mi manca anche la persona che ero io con lui. Ero così sprezzante della sua vita trascorsa al bar tra un commento sulla Roma e la ricerca di un villaggio vacanze per andare in ferie. Adesso mi ritrovo la notte alle tre e mezzo per andare al lavoro e mi sento solo perché non so che cosa avrebbe fatto lui nella mia posizione, con un lavoro di merda e con una struttura vertebrale che è l’anello di congiunzione tra l’uomo e la medusa”. Ecco questo senso di malinconia e solitudine cosmica, di “inadeguatezza del quotidiano e dell’essere quotidiani” è una cifra, per così dire, caratteristica molto forte nel libro. Ritiene sia giusta quest’affermazione oppure siamo andati lontani?

Non, no, penso che sia propria e questa vena malinconica il protagonista la presenta molto forte anche e soprattutto per questa sua, più o meno, manifesta ascendenza amletica. Anche il fatto di non capire fino in fondo cosa sia il suo rapporto con Elena e proprio figlia di ciò od anche, per esempio, quando "si butta lì una frase solo per vedere l'effetto che fa, tanto c'è sempre il tempo per dire che si stava scherzando".

Per un autore come lei, nato a Roma nel 1980, che cosa ha voluto significare dover parlare, per una buona parte del libro, di fatti, episodi, situazioni e ambientazioni molto precedenti alla sua nascita: quanto è stato difficile? Oppure è stato più semplice rispetto a raccontare determinati accadimenti maggiormente recenti, contemporanei?

Ha voluto dire leggere tanti libri ma questo è sicuramente un fatto che mi appassiona in maniera preponderante. Alla fine dei conti amo parlare di quel periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a, grosso modo, il G8 di Genova del 2001, perché significa fare i conti con la storia di ognuno ma non solo. Questa storia è anche una storia che continua ad auto-alimentarsi in perenni sorgenti che trattano o svelano questo o quel mistero italiano. Anche se siamo ancora considerati, e pure a giusta ragione, come il Paese del bel vivere, solo da noi, ad esempio, facce del terrorismo hanno trovato terreno fertile sotto i loro piedi

Come ultima domanda vorrei soffermarmi sul capitolo 23, intitolato “L’affetto dei gatti”. A me ha letteralmente impressionato il dialogo/scontro verbale tra Sirio, il “terzomandista/alternativista” e Tito il “celerino/uomo d’ordine”, il tutto descritto come se una PlayStation fosse più simile ad un anfiteatro greco che ad una consolle: come ha fatto ha costruire una scena così densa di pathos?

Diciamo che volevo mettere in scena una conflittualità latente nel corso del suo libro tra due figure completamente antitetiche, Sirio e Tito giustappunto. Quindi ho pensato di costruire la scena come una sorta di agone dove, al posto della picca e del moschetto o della lancia e del tridente, si usano le parole ed eventualmente il controller di una consolle. Per scrivere questo capitolo mi sono dovuto molto impegnare per prendere le redini dell'altro, di Tito, di quello che è dall'altra parte. Questo perché invece di demonizzare chi non la pensa come te è sempre meglio prima conoscere, farli parlare: poi, al massimo, potremo non essere d'accordo ma almeno così tutti hanno la possibilità di dire la loro. 

Mattia Nesto


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