Al caffé degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail
At the Existentialist Café. Freedom, Being and Apricot Cocktails
Sarah Bakewell
Fazi, 2016
Traduzione di Michele Zurlo
pp. 470
€ 20
Sono passati troppi anni da quando, in oscure caves affollate, gli esistenzialisti si sfinivano piroettando a ritmo sfrenato sulla base di qualche melodia jazz. C'era Juliette Gréco che cantava, Boris Vian che suonava la tromba. I ragazzi portavano maglioni scuri a collo alto, si vestivano in maniera stravagante – erano gli hipster, quelli veri – che imitavano nelle fantasia delle giacche i loro cugini americani. Nei locali affollati, nelle caves parigine – soffocanti localetti semi-nascosti nei bassifondi della città – si accedeva con un libro sottobraccio: era un segno di distinzione, o meglio di riconoscimento. Sono passati molti anni anche dai raduni scanzonati e pensosi al café Bec-de-Gaz, in Rue du Montparnasse a Parigi. Tra il 1932 e il 1933 vi si davano appuntamento Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Raymond Aron, compagno di classe e di memorabili bevute.
Sarah Bakewell, esistenzialista convinta da quando, in età adolescenziale, scoprì la Nausée, tenta qui un esperimento interessante. E se a quel caffé – si domanda – si riunissero tutti, tutti quanti insieme, quei filosofi che hanno fatto dell'esistenzialismo il movimento che poi è diventato? Se in quel café Bec-de-Gaz di Montparnasse, a bere succulenti cockail all'albicocca, non ci fossero stati solo Sartre e de Beauvoir ma anche tutti gli altri, i predecessori, i detrattori, gli amici trasformatisi poi in nemici, gli ispiratori e tutti, tutti insieme, fossero seduti attorno a un tavolo a discutere, a ridere, a dileggiare enormi aragoste e superfici vischiose, a questionare sulla responsabilità e l'impegno, l'angoscia, la contingenza, il fenomeno e molto, molto altro ancora? In altre parole che cosa accadrebbe se immaginassimo per un istante che tutte le vite, quelle vite filosofiche di Heidegger, Camus, Vian, Jaspers ma anche Husserl e poi ancora Dostoevskij, Brentano, Santo Genet e altri, fossero riunite in un grande caffè immaginario? Che cosa accadrebbe se provassimo a ricostruire il pensiero – le idee di ognuno – osservando questi personaggi da vicino, sbirciando la loro maniera di gesticolare, di bere, ridere o arrabbiarsi, il loro modo di corteggiarsi, motteggiarsi, litigare e fare la pace? Che cosa accadrebbe se andando contro qualsiasi teoria strutturalista e post-strutturalista sulla morte dell'io, sulla disintegrazione del soggetto, sulla necessità di ripensare la parola e non l'esistenza di un autore, ci mettessimo per un attimo a "guardar vivere" queste persone per comprenderne più a fondo la loro filosofia?
Guardar vivere, osservare il fenomeno, è l'essenza base della fenomenologia. E, ci dice Bakewell, è da qui che nasce l'esistenzialismo: dalla necessità di andar contro i grandi sermoni della filosofia di un tempo. Abbasso le vagheggianti teorie, abbasso le speculazioni senza prove contingenti. Quel che Sartre e de Beauvoir e tanti altri seguaci portarono avanti, partendo dall'essere, dalle idee inizialmente mal comprese di Heidegger, altro non fu che una filosofia dell’uomo, un pensiero completamente ateo capace di rimettere al centro della questione l’esistenza di ciascuno. Guardar vivere questi vecchi filosofi, osservarli in un caffè immaginario altro non è, per Bakewell (una laurea in filosofia e un dottorato non terminato su Heidegger) un modo per mettere in pratica – concretamente – il pensiero di questi stessi pensatori. Osservare la vita per tradurla in riflessione, farne opera scritta, dibattito. Andare avanti («Avanti! Sempre avanti!») per comprendere noi stessi e riflettere sul mondo. Per far sì che l’esistenzialismo – la filosofia dell’uomo, della vita – non passi semplicemente alla storia come una parentesi scanzonata, litigiosa e buontempona sul piacere di riflettere su se stessi.
L’opera di Bakewell – più di quattrocento pagine che si bevono con lo stesso gusto di un cocktail all’albicocca – passa in rassegna le esistenze di questi filosofi per mostrare come oggi, più che mai, di esistenzialismo ci sia bisogno. Triturato dalla critica strutturalista e post-strutturalista, dimenticato dalle scuole, non compreso dalle università, snobbato dai festival filosofici resta, purtuttavia, un momento chiave nella storia del Novecento. E se le università italiane non comprendono Sartre, se lo etichettano come un nombriliste, un egocentrico, un marxista-leninista-maoista dal carattere contradditorio e iracondo, se al grido beauvoiriano di «On ne nait pas femme on le devient» (donna non si nasce, lo si diventa) certi storcono il naso etichettando come “follia”, “invasamento” il pensiero femminista, allora sì, è proprio il caso di riaprire i libri, di dare fiato alla storia.
Ridare voce a quelle voci è un modo, ci ricorda Bakewell, per tornare a riflettere. Per spegnere i cellulari, per mettere a tacere lo stupidario televisivo che vuole una società di automi tutti tecnologia e niente cervello. Un modo, ci ricorda, per riscoprire concetti ormai andati perduti quali responsabilità, autonomia, criticità, libertà. Parole note e arci-note, banalizzate da manualetti fai-da-te, da direttive pseudo-pedagogiche che dovrebbero insegnare ai ragazzi il giusto vivere. E invece, quel che manca, quel che di cui si sente prepotentemente la mancanza, è proprio quell’aria di responsabilità e coscienza che attraversava gli anni d’oro dell’esistenzialismo, quelli del dopo-guerra, quelli della necessaria riflessione sul proprio essere uomini nel mondo, attraversati dal peso dolente di una libertà che esiste, e si deve manifestare, sempre in contrasto con la realtà contingente. «Penso sempre contro me stesso» sosteneva Sartre. Contro un proprio modo d’essere, una propria schelorizzata convinzione perché era quello, ripeteva, l’unico modo per andare avanti, per correre verso il domani e dire il nuovo e dirlo meglio. Per evolvere e non restare impantanati nella vischiosità assassina, nel laido benpensantismo di quelli che spengono la testa e si lasciano vivere, inerti.
La contingenza è, ci vien da dire, la caratteristica principale di questo volume che se non si appella alla più imponente “necessità” sartriana è semplicemente perché è nel qui e nell’ora che c’è bisogno di letture capaci di fornire una lente di ingrandimento sulla nostra società facilona e impazzita, deresponsabilizzata e vuota, ormai incapace di passione, defraudata dalla stessa possibilità di sentire. Bakewell ridà voce allo stupore, all’emozione del saper considerare «un cielo di zolfo su un mare di nuvole, il faggio purpureo, le notti bianche di Leningrado, le campane della liberazione, una luna arancione sul Pireo, il sole rosso che sorge su un deserto» così cari alla de Beauvoir, per riappropriarsi, ci dice, della nostra stessa esistenza, del nostro modo di essere cittadini della terra e del mondo. Avere coscienza del proprio essere, porsi domande, interrogarsi ma anche amare la vita nella sua meraviglia, nell’incanto boschivo, nel silenzio dei passi su sentieri di heideggariana memoria, è il mezzo necessario per non passare inutilmente su questa terra. Dimenticando la scusante della salvezza eterna, riappellandosi alla contingenza del pensare l’esistenza terrestre come unica e sola, rifacendosi a un’etica dell’uomo, una filosofia dell’uomo e non più del dio, Bakewell accompagna il lettore verso la ri-conoscenza di un periodo fondante della storia del nostro Novecento.
Rimettere al centro l’uomo e collegarlo al proprio pensiero. Ridare voce alla responsabilità di ogni destino e in fondo, ci suggerisce, non dimenticare chi siamo, non smettere di cercare, andare avanti, come faceva Sartre cieco e con l’udito ormai ammaccato che asseriva, malgré tout: «tutto sommato sono contento».
Social Network