Novelle - volume sesto
di Grazia Deledda
prefazione a cura di Giovanna Cerina
Nuoro, Ilisso, 1996
pp. 278
cartaceo: € 11
e-book: € 4,90
Eccoci giunti all'ultimo libro di Novelle di Grazia Deledda; in particolare, il volume sesto comprende le raccolte Sole d'estate (1933) e Il cedro del Libano (1939).
Di queste, la seconda uscì dopo la scomparsa dell'autrice.
Di queste, la seconda uscì dopo la scomparsa dell'autrice.
La Deledda che emerge da queste storie è, oramai, una donna matura, conscia delle possibilità narrative che la lingua le mette a disposizione, e incredibilmente esperta nell'uso degli strumenti retorici sui quali lavora da una vita.
Iniziando dall'analisi della raccolta Sole d'estate, possiamo cominciare col dire come la stessa comprenda venticinque novelle, e prenda il titolo da quella chiamata col vocabolo greco Théros, il cui significato è, appunto "Sole d'estate".
Questa storia è ambientata in Romagna, nel periodo estivo, quando tutti paiono innamorati della celebre attrice cinematografica il cui nome risuona nel titolo della novella: la storia è priva di una vera e propria trama, ma descrive lo scorrere lento delle vite di un'umanità variegata.
In mezzo alle atmosfere pigre proprie dei mesi più caldi dell'anno, scopriamo che Théros appartiene a tutti noi:
" (...) Théros è quello che è: è quello che tu sei, è la gioia di vivere, è l'estate, che già per te è cominciata col solstizio d'inverno, cioè col crescere del giorno e col crescere della tua statura e della forza dei tuoi desideri (...) ".
E' all'interno di queste raccolte che troviamo (finalmente) una Deledda che non ha più paura di raccontare particolari della propria vita all'interno delle sue opere, lasciando così al lettore il piacere di perdersi all'interno di luoghi e sensazioni di una Sardegna atavica e misteriosa.
A sostegno di quanto detto, non possiamo non citare Elzeviro d'urgenza, nel quale la scrittrice racconta le difficoltà di lavorare nei quotidiani, la frenesia che sta dietro ogni pezzo, ogni elzeviro, che viene scritto in pochissimo tempo, pronto ad essere letto da migliaia di persone:
" (...) Fa presto, il Direttore di un grande quotidiano, a spedire un telegramma così concepito: "Pregola mandarmi d'urgenza elzeviro". Lo scrittore collaboratore ordinario del giornale, sebbene forse aspetti il telegramma, lo riceve con un sentimento misto di compiacimento e d'inquietudine. Compiacenza si capisce di che; inquietudine per la parola urgenza (...) ".
Nelle novelle Lo stracciaiolo del bosco e Il tappeto emergono elementi cari alla Deledda, come la fede in Dio e l'idea cristiana della resurrezione, che ritroveremo in tutti i suoi romanzi, seppur in queste storie le stesse vengano trasposte all'interno di oggetti inanimati:
" (...) Ad ogni modo andrai anche tu per la tua strada, fino a cadere morto, come tutto cade, uomini e foglie, ma neppure allora andrai disperso, poiché anche per i tappeti c'è l'eterna legge della resurrezione, e rinascerai in tela da imballaggio, o in cartastraccia, o, fatto concime, in una rosa di maggio (...) ".
In La Grazia troviamo la Deledda stessa amareggiata per i primi giudizi della critica locale; ma sopra all'amarezza svetta la fede in Cristo, e perfino una firma fatta con la croce diventa motivo di avvicinamento al cielo:
" (...) So che era scritto in bella calligrafia, a nome della madre, con la firma apocrifa identificata da una piccola croce tremula, significativa immagine della madre stessa, della sua fede, del suo dolore (...) ".
All'interno della raccolta Il cedro del Libano vi sono trentuno novelle, nelle quali protagonista è, ancora una volta, l'umanità più umile.
La storia che dà il titolo alla raccolta narra, appunto, di un antico cedro del Libano, cresciuto nel giardino della casa d'infanzia della scrittrice, simbolo di uno scorrere del tempo, delle persone e delle distanze.
Altro protagonista della storia è un pino che cresce nei pressi di Nuoro,
" (...) superstite forse di antichissime foreste (...) ".
I due alberi simboleggiano un passato ben lungi dal tornare ed un presente incerto, che forse non diverrà futuro (la Deledda è da tempo malata).
All'interno di Ferro e fuoco l'autrice sarda racconta dei riti preistorici: ella, come abbiamo detto, è finalmente libera dall'ansia di dover allargare gli orizzonti della sua scrittura, perché non ha più timore del fatto che, raccontando le antiche usanze della sua terra, il mondo della critica possa sminuirla, accusandola di scrivere sempre di ciò che accade all'interno del suo piccolo universo.
E' una Deledda che mai avevamo avuto modo di vedere nelle novelle, è una scrittrice consapevole del suo valore e senza più nulla da dover dimostrare a chi ancora si ostina a criticarla: anche se il pensiero della morte si avvicina, la sua anima è in pace, come scrive in Agosto felice:
" (...) Come nei racconti delle antiche genti, alla più tarda età; andarsene per l'ultima passeggiata in carrozza verso la pineta una sera di ottobre, accompagnati dall'inno sacro del mare, fra i candelabri accesi dei pioppi d'oro: fermarsi nel piccolo camposanto all'ombra glauca dei pini, tra i fiori azzurri del radicchio e le pigne spaccate che sembrano rose scolpite nel legno (...) ".
Forse è proprio questo il messaggio più bello che ci lascia in eredità Grazia Deledda: per riuscire davvero ad esprimere chi siamo e chi vogliamo diventare, è necessario liberarci da quell'atavico bisogno di compiacere tutti quanti ci stanno accanto.
Nell'era delle immagini condivise, della corsa all'autocompiacimento, dell'ego smisurato, dobbiamo essere ben consapevoli che se è impossibile (e forse nemmeno sano) avere l'approvazione di tutti, è imprescindibile riuscire a farsi accettare dall'unica persona il cui valore rimane essenziale in ogni epoca ed in ogni terra: noi stessi.
Ilaria Pocaforza