Stranieri alle porte
di Zygmunt Bauman
Laterza, 2016
pp. 104
€ 14,00
Titolo originale: Strangers at Our Door
Traduzione di Marco Cupellaro
Letto pochi mesi dopo la morte dell’autore e a pochi giorni di distanza dal provvedimento radicale di Donald Trump in tema d’immigrazione, Stranieri alle porte pare lanciare il suo messaggio profetico attraverso il tempo, smontando pezzo per pezzo la mitologia dell’“uomo forte”, quella dello “straniero nemico/pericolo da debellare/minaccia da circoscrivere”, e analizzando invece le cause di una paura atavica che acquista nel contemporaneo sfumature e declinazioni radicalmente nuove.
Ciò che nuovo non è semmai l’impronta stilistica a cui viene consacrato l’intero discorso: Bauman si conferma straordinario venditore di una formula efficace e continuamente iterata, variata opportunamente a seconda dei contesti; l’idea di liquidità, con tutte le implicazioni relative alla debolezza delle relazioni e alle molteplici fragilità sociali, ritorna anche in questo testo, seppur opportunamente mascherata. Il sociologo polacco conferma le sue doti di efficace divulgatore, provvedendo a una sistematizzazione di concetti noti in una teoria che vorrebbe avere una qualche organicità. Bisogna tuttavia osservare che un Bauman ormai anziano attacca ostinatamente la cultura pop, ma finisce per risultare vagamente pop a sua volta. Il linguaggio utilizzato è molto connotato, a tratti colloquiale, sempre espressivo: si dà per scontato che il lettore conosca le opere precedenti, o quantomeno il pensiero che vi soggiace; si utilizzano metafore suggestive ma non necessariamente chiare o pienamente pertinenti.
Va riconosciuto del resto che la necessità di schierarsi, di sbilanciarsi verso una posizione precisa, sostenuta con termini coloriti e accesi, è funzionale al messaggio di fondo: il problema della fobia dello straniero richiede un’implicazione etica, per sfuggire all’indifferenza imperante dei nostri tempi. Di fronte alla tentazione di demonizzare l’altro per trovare legittimazione al nostro comportamento dis-umano, an-affettivo, nei confronti di un essere umano come noi, l’assunzione di una presa di posizione forte diventa legge morale. Uno degli aspetti più spiazzanti (e pertanto più interessanti) di questo breve volume è allora forse lo schieramento in prima linea sul fronte delle argomentazioni di Immanuel Kant, con un suo scritto del 1795 che si rivela quanto mai forte e presente. In Per la pace perpetua il filosofo ribadisce il “diritto di uno straniero di non essere trattato ostilmente quando arriva sul suolo di un altro” (62), non semplicemente in base a una logica di ospitalità, ma “per via del diritto al possesso comune della superficie della Terra, su cui, giacché è una superficie sferica, essi non possono disperdersi all’infinito e devono infine sopportarsi a vicenda” (63). Bisogna dunque, sulla base di questo consiglio straordinariamente pragmatico seppure datato, riportare l’etica all’interno della politica, accettare l’idea di avere una responsabilità in quanto uomini e donne di questo pianeta, farsi carico di una morale non selettiva. Al momento, infatti, la condizione mentale prevalente nelle masse è quella del rifiuto: se considero lo straniero che bussa alla mia porta un criminale, se lo identifico immediatamente con il terrorismo che mi spaventa, lo posso attaccare senza sensi di colpa, lo posso bandire serenamente dalla mia sfera morale. Ipotizza Bauman che questo sia un modo per placare l’inquietudine di fronte a una società che schiaccia l’individuo e lo scaraventa come una pallina da Flipper in balia di forze e dinamiche che lo trascendono e che non possono essere controllate:
una paura più intensa – ma indirizzata su un nemico specifico, visibile e tangibile – risult[a] in qualche modo più sopportabile di un insieme di paure disperse, disseminate e fluttuanti, di provenienza sconosciuta (29).
Nulla di nuovo sul fronte occidentale, in effetti, visto che in tali parole ritorna tutta la teoria del capro espiatorio di girardiana memoria. Secondo Kant, ciò che impedisce all’uomo di abbandonarsi all’egoismo e all’ipocrisia è il desiderio di salvaguardare il rispetto di sé, di sentirsi in linea con la propria legge morale, ma questo difficilmente è sufficiente in una società in cui impera una crisi da cui il soggetto non trova scampo. Una prima risposta è l’affidamento cieco e incondizionato al capo autoritario, quello che propone risposte concrete (e assolutamente inattuabili, ma accattivanti alle orecchie dei deboli):
L’imperdonabile peccato della democrazia, agli occhi di un numero crescente dei suoi presunti beneficiari, è che non mantiene gli impegni e usa come pretesto la formula Tina: There Is No Alternative. […] Del resto, il termine stesso di “parlamento” deriva dal termine parler: dunque “parlare”, “dire”, non “far sì che le cose siano fatte”. La forza d’attrazione dei pretendenti al ruolo di uomo e donna forte sta proprio nella promessa di agire (57).
La seconda è quella di perpetrare uno stato in cui esista qualcuno che sta peggio, qualcuno da identificare con la causa dei problemi sociali e che quindi lasci almeno l’illusione che tali problemi siano risolvibili attraverso l’eliminazione della causa: quindi si blocchino le frontiere, e tutto si risolverà.
La tematica affrontata da Bauman con piglio (forse troppo) deciso è in realtà spinosa e priva di soluzioni. Non può quindi che sembrare debole, semplicistica e vagamente moralistica la conclusione, in cui si dibatte sull’importanza del dialogo come mezzo per trovare un punto d’incontro e raggiungere una piena comprensione dell’alterità. L’idea del confronto come sorta di panacea universale pare intuitiva per qualsiasi persona di buon senso, che si rende conto allo stesso tempo della difficoltà della realizzazione di un tale progetto: per instaurare una conversazione con l’altro bisogna abbattere muri, non costruirli, e la proposta pare dunque inattuale, in contrasto con quanto sostenuto fino a quel momento nel testo e con la realtà quotidiana che impietosamente descrive. Non si può peraltro attribuire una colpa eccessiva all’autore: non esisteva un metodo valido per chiudere un’opera che tocca argomenti così nevralgici per il mondo contemporaneo. Si poteva, al massimo, lasciare una pagina bianca.
Carolina Pernigo