di Andre Dubus
Mattioli 1885, 2015
Traduzione di Nicola Manuppelli
pp. 232
€ 16,90
Andre Dubus ha rappresentato, nel
panorama letterario statunitense, uno
dei veri interpreti del genere short story. Ha scritto
un solo romanzo, peraltro rinnegato. Dal 2009 i suoi racconti vengono pubblicati
in Italia e hanno subito mostrato grande qualità narrativa, ribadita in questa
ultima raccolta. Così, come per Kent Haruf abbiamo reso omaggio a NNE, per Dubus
dobbiamo fare la stessa cosa per Mattioli 1885, casa editrice di Fidenza,
finora a me sconosciuta. E devo rammaricarmene, specie se a tutto il catalogo dedica
la cura tipografica e nella traduzione mostrate per “I tempi non sono mai così
cattivi”.
Già, i tempi non sono mai così
cattivi ma neanche troppo edificanti. Vogliamo capire di cosa trattano questi nove racconti? Vi cito quelli che mi
sono rimasti più impressi: “La ragazza carina”, in apertura, affronta la violenza coniugale. Il marito di
Polly, un palestrato piuttosto squallido, non accetta che l’ex moglie abbia
un’altra storia. Per questo arriva a violentarla scatenando altresì il suo
vortice di rabbia repressa sui nuovi presunti compagni e sul padre di lei. In “Benedicimi, padre”, una ragazza scopre
che il padre tradisce la moglie e, a difesa della madre, lo intima di lasciare
l’amante. Ma dalla conversazione tra i due, una cosa impensabile solo poco
tempo prima quando la ragazza era un’adolescente e non una studentessa sulla faticosa
strada della forza caratteriale, l’adulterio comparirà in una luce diversa. “Misteri dolorosi” affronta il
razzismo, mai scomparso in America, dal punto di vista di un ragazzo. Una
storia triste, fatta di omicidi a cui non viene data giustizia. “Anna” racconta di una ragazza
che aiuta il suo compagno durante una rapina in farmacia e poi si sforza di
proseguire la vita come se nulla fosse accaduto. La sera si ubriaca, la mattina
dopo torna al lavoro con la testa a pezzi per la sbronza, poi ritrova il fidanzato
a casa che fa la doccia e con lui va a investire il frutto del crimine in
elettrodomestici. Torneremo su “Anna”.
Prima
però un digressione specifica su “Storia
di un padre”: Luke Ripley è un uomo divorziato a metà tra i cinquanta e
sessanta anni, ha una scuderia con trenta cavalli dove alcuni ragazzi insegnano
equitazione. È un cattolico praticante e frequenta padre Paul. Dalla ex moglie
Gloria ha avuto sia maschi che femmine e adesso è tornata a trovarlo proprio
Jennifer. L’incidente automobilistico di cui è protagonista la figlia e che
coinvolge un giovane che morirà a seguito dei postumi, porta Luke a fare davvero i conti con la fede e dunque a scavalcare il pastore, colui che in
fondo è essenzialmente un amico, per rivolgersi direttamente a Dio (Lui –
confesso che mi è balenata in testa la postilla in persona come suggestione davidfosterwallaceana). Il finale, un
dialogo che nasce, cresce e si consuma con rapidità nella testa di Luke, è il
punto più alto della riflessione, da cui scaturisce che la combinazione sentimentale
che lega una figlia umana a un padre
maschio troppo umano può sfidare la
portata universale di un messaggio che corre su fondamenta trascendenti ma
esclusivamente maschili (Dio e Figlio).
Ho letto che non bisogna cercare
paesaggi nei racconti di Dubus, molto restio peraltro anche al simbolismo, a
detta di lui stesso: una pistola è un pistola, un’arma che spara non la
sublimazione di qualche icona fallica. La provincia americana, dove sono
ambientate le storie, appare come un breve lampo che lascia subito spazio a uomini e donne dalle ossa rotte che provano
comunque con l’amore a giocarsi la rivincita. La scrittura stessa non è incline
a toni drammatici, potenti o perfino ironici. È semmai analitica.
In questo contesto, è
interessante la spiegazione offerta da Dubus quando per “Anna” ci dice che
aveva in testa un personaggio completamente diverso da quello in seguito
tratteggiato. E questo ci porta a entrare nella testa di chi scrive: Dubus
spiega che da una stesura orizzontale,
una successione di frasi giornaliere portate avanti a prescindere dal fatto di
ottenere qualcosa di compiuto, è passato a una
scrittura verticale con meno parole,
un procedere più lento per calarsi nel carattere del personaggio e scoprire
perché fa ciò che fa. Giocando sull’immedesimazione. Che non vuol dire amare i
protagonisti ma «qualcosa di più intenso».
Ecco, Dubus si lascia consapevolmente
coinvolgere, pensa alle sue creature come a persone, si rende partecipe dei
loro gesti e delle loro vite, con un atteggiamento
cartesiano di grande lucidità che permette di traslocarle dal 1983, anno
della prima edizione, in universi spaziali e temporali lontani. Come quello di
un lettore italiano del 2017. Così che al sottoscritto, che non è un amante del
racconto, “I tempi non sono mai così cattivi” pare la migliore raccolta della
letteratura nord-americana dopo lo straordinario “Undici solitudini”
di Richard Yates e ben prima di “Troppa felicità” della Munro. Che pure è stata
insignita del Nobel.
Marco Caneschi
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