«Meno diario e più cronaca», questi i suggerimenti di Ángela Pradelli a Camilo Sánchez in merito alla Vedova Van Gogh, pubblicato da Marcos y Marcos. E così l’autore ne ha fatto un testo lineare: un romanzo sugli eventi dalla morte di Van Gogh fino alle prime mostre che consacrarono il successo delle sue opere, in cui brevi brani di diario si alternano alla narrazione.
Il punto di vista è quello di un narratore onnisciente che conosce i diari della protagonista, le lettere di Van Gogh al fratello e che racconta in modo essenziale, senza fronzoli, una storia inedita in una chiave romanzata. Johanna van Gogh-Bonger era la moglie di Theo van Gogh, fratello di Vincent, nonché suo mecenate. Lei lo vide pochissimo, ma dal momento in cui si sparò in mezzo al petto cominciò a convivere prima con il dolore che uccise il marito Theo e poi con le sue opere, le sue lettere. Johanna era una traduttrice e usava tenere un diario, così sappiamo che leggendo le lettere di Van Gogh scoprì quanto la sua scrittura potesse essere poetica, fascinosa; era un lettore accanito, con un modo tutto proprio di trattare il colore e guardare le cose.
Si lasciò guidare, Johanna, da come Van Gogh parlava delle sue tele nelle lettere, e così imparò a conoscerle, a discernere le fasi della sua pittura, e capì come e cosa vendere per ricavare quello che serviva a incorniciare le opere più importanti da esporre. Grazie a lei, le opere di Van Gogh conobbero quel successo che mancò mentre il pittore era in vita. Tra queste pagine leggiamo la storia di una vedova rimasta con un figlio di nome Vincent van Gogh, da cui voleva cancellare la traccia dell’infelicità che aveva conosciuto lo zio e di un altro bambino con lo stesso nome morto molti anni prima, il fratello cui il pittore da piccolo deponeva i fiori sulla tomba. In calce al testo, alcune note spiegano al lettore particolari della vicenda della vedova e delle opere, approfondiscono la storia narrata in modo da soddisfare la curiosità su uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Ho intervistato la traduttrice, Francesca Conte.
Che te ne pare de La vedova Van Gogh?
La vedova Van Gogh (che preferisco sempre nel titolo originale La vedova dei Van Gogh, che lascia intravedere tutte le ambiguità e le strade intrecciate del testo), è un libro breve e potente, che racconta una storia in un certo senso nuova (anche se non del tutto sconosciuta per chi ha studiato un po’ la figura e la vita di Van Gogh, che sa come l’artista deva molto alla figura di sua cognata); la novità sta non nella nozione in sé (la casa editrice Abscondita ha pubblicato infatti il memoir Vincent Van Gogh di Johanna Van Gogh-Bonger), ma nella costruzione di questo personaggio femminile, e in come la figura di Vincent, che grazie a lei diventa Van Gogh (e nei quadri è sempre Vincent), si costruisca prima davanti ai suoi occhi e poi ai nostri.
Se Van Gogh ha potuto dipingere è stato grazie al fratello, ma la fortuna delle sue opere deve molto ad alcune donne, prima fra tutte la protagonista di questo romanzo. Che ne pensi di lei, che tra l’altro era anche una traduttrice?
È incredibile la scoperta del fatto che l’arte di Van Gogh sia arrivata fino a noi grazie a questa donna, giovane vedova con un figlio piccolo e senza prospettive, che si mette a leggere le lettere del marito al cognato, e rimane folgorata dalla poetica del colore, e poi da tutto quel che ne segue; rimane incantata dalle lettere, e poi dai quadri per come emergono in queste lettere, per come sono descritti, è curioso ricordare che si ripromette di esporre entrambi (partendo quindi dall’edizione delle lettere, che infatti curerà per prima).
“We can only speak by our paintings”: “E cosi noi possiamo far parlare solo i nostri quadri”. Sono stata ossessionata da questa frase, l’ultima lettera quella che Van Gogh aveva nella giacca, che Theo estrae e porta casa, lascia nel bauletto e in seguito ritrova Johanna – come se questa frase di Van Gogh avesse scelto Johanna per farsi manifesto, arte, e vita dopo la vita.
Riguardo alla vita professionale di Johanna, femminista ante litteram, del suo lavoro di traduttrice so poco, anche perché fa parte di una sua vita anteriore a quella fotografata in questo libro. Sicuramente aveva una grande sensibilità per il linguaggio, lo si vede dai suoi interventi di editing sulle lettere. E sicuramente aveva una bella capacità di voler lavorare, in senso commerciale, cercando al tempo stesso di costruirsi una vita “su misura”: apre la sua locanda, un luogo di lavoro, ma anche un rifugio; desiderando di non precludersi una nuova vita, una nuova storia, per far conoscere al mondo i quadri di Van Gogh. Molto moderno questo progetto, decisamente moderna la figura di donna che ne vien fuori. È interessante, anche, che voglia esporli, i quadri, piuttosto che tentare semplicemente di venderli; e anzi, vendere quel poco necessario a continuare a esporre, in mostre sempre più importanti, seguendo le indicazioni contenute delle lettere di Vincent.
Sì, Le Lettere a Theo nell’edizione di Guanda, il memoir scritto da Johanna Van Gogh-Bonger per la prima edizione delle lettere (con l’appendice importantissima del figlio che cita brani dei diari) pubblicato come dicevo da Abscondita, il Ritratto del dottor Gachet, di Cynthia Saltzaman pubblicato da Einaudi, In cielo, di Octave Mirbeau nell’edizione Skira, e poi le lettere, tutti i volumetti Taschen con le note biografiche, di cui è stato sempre necessario ricontrollare o ricostruire la denominazione. Sicuramente avere una libreria mi ha agevolato, ho avuto la possibilità di ordinare tutto ciò che volevo.
Come hai lavorato alla traduzione? Hai avuto modo di confrontarti con l’autore mentre traducevi?
Mentre leggevo il libro ho cercato di arricchire la mia conoscenza del panorama storico, poi come sempre, ho buttato giù una prima stesura un po’ faticata e faticosa; l’ho lasciato lì a decantare, e a sputare fuori tutte le pesantezze. C’è stato un bel confronto in fase di revisione, che mi è capitato di definire “implacabile e rispettosa insieme”. Il lavoro ne ha beneficiato indubbiamente molto, più di altri con stessa traduzione e stesso revisore! Forse perché a dispetto dell’apparente semplicità è stata una resa non facile, con un grosso lavoro dietro, per dare equilibrio agli adattamenti necessari a rendere il testo con il ritmo giusto in italiano, senza stravolgerlo.
Ho interpellato molto l’autore perché il libro (e di conseguenza il lavoro di traduzione) è in bilico tra storia e invenzione, ci sono moltissimi riferimenti precisi da verificare, da mantenere, in alcuni casi da correggere, è stata un’interlocuzione delicata: un lavoro nel lavoro.
Hai avuto particolari difficoltà su espressioni tipiche che non riuscivi a riportare in italiano?
Sì. “Si metemos pasion, a fuego lento”, “la alegria de la ausencia”, non perché tipiche, ma perché frutto di una visione interiore dell’autore, che sono stata cosi fortunata da far sì che fossero “illuminate” da lui in persona, splendido, sempre gentilissimo, entusiasta, disponibile e generoso di spunti.
È stato difficile rendere il tono solenne e lirico, a metà fra il poetico e il documentaristico, spesso molto piano in spagnolo, che a tratti in italiano rischia però di appiattirsi; c’è stato un grosso impegno di resa, che magari (anche grazie alla revisione) non traspare.
Pensi che ultimamente si stia dando più valore al lavoro del traduttore?
Avendo collaborato in maniera professionale con un solo editore (peraltro appena insignito del premio nazionale per la traduzione, riconoscimento meraviglioso di cui mi pregio, in modo infinitesimale, di far parte), la mia valutazione è per forza incompleta. Mi sembra più citato, questo sì, in maniera più chiara sui vari mezzi di stampa e più presente sui social. Marcos y Marcos ha sempre dato al traduttore la dovuta importanza, al traduttore istituzionale e affermato quanto all’esordiente (parlo a ragion veduta avendo esordito con loro); mette in evidenza il nome dei traduttori nelle sue pubblicazioni, e propone collaborazioni nel più totale rispetto del lavoro; lo stesso rispetto dimostra anche in sede di revisione, è stato così fin dal primo incarico.
Cosa stai leggendo?
Di solito tengo in lettura più testi contemporaneamente: uno o due romanzi (che alterno a seconda dell’ora, del giorno o dell’umore), una raccolta di racconti, uno o più saggi che non leggo mai dall’inizio alla fine ma saltabeccando, sebbene sempre per intero. Ho appena terminato Fato e furia,di Lauren Groff, e On writing di King; sto leggendo Il giardino di Amelia di Marcela Serrano, e L’altro figlio di Sharon Guskin.
A seguire leggerò Le otto montagne di Cognetti, e Chiederò perdono ai sogni, di Sorj Chalandon,
Oggetti solidi di Virginia Woolf e Troppa felicità di Alice Munro
Forse questa necessità o passione di percorrere più testi insieme viene dal mio passato di libraia.
Intervista a cura di Lorena Bruno