di László
Krasznahorkai
Bompiani, 2016
pp. 316
20 €
«Il tempo passava lentamente, e anche se l’orologio, per loro fortuna, non funzionava più da un bel pezzo e non poteva quindi con il suo ticchettio richiamare la loro attenzione al suo fluire, la donna continuava a fissare le lancette immobili mentre con il cucchiaio di legno ogni tanto girava lo stufato che bolliva».
Satantango è il romanzo con
cui nel 1985, quattro anni prima della caduta del muro di Berlino, esordisce lo
scrittore ungherese László
Krasznahorkai. Il primo dicembre dell’anno scorso Bompiani ne ha pubblicato la
prima attesissima versione in italiano. La traduzione, ottima, è di Dóra Várnai.
Satantango è la storia di un’illusione collettiva,
di una speranza e di un’attesa. Sullo sfondo di una cooperativa agricola in
stato di totale abbandono, si muove un gruppo sgangherato di poveri cristi,
ubriaconi, inetti e attaccabrighe. Il sogno del collettivismo è andato in
frantumi e al suo posto non resta che polvere, rammarico e tanti ricordi. Un
briciolo di ottimismo è veicolato però dal “ritorno” allo stabilimento di
Irimiás, messia misterioso di indiscutibile fascino, e del prode scudiero
Petrina, grassottello e buffo. L’imbroglio è ovviamente nell’aria ma sono loro
due a conferire un significato all’esistenza di questa piccola comunità sperduta
nel nulla magiaro.
Tradotto prima in tedesco nel
1990, poi in francese nel 2000 e in inglese nel 2012, il romanzo di esordio di Krasznahorkai è arrivato nei nostri
scaffali ventuno anni dopo la pubblicazione in patria e sulla scia dei successi
dell’autore, che nel 2015 si aggiudica il Booker International Prize, che gli vale diversi endorsment
anche in chiave Nobel. Oggi la critica considera l’autore originario di Gyula
(1954) il più importante scrittore ungherese vivente. Nelle pagine e nella
sintassi avvolgente di Satantango ce n’è la dimostrazione.
«Da quando lo stabilimento era stato dismesso, da quando la gente si era affrettata a fuggire da lì con lo stesso slancio con cui era arrivata, e lui – insieme ad alcune famiglie, al medico e al preside, che come lui non sapevano dove andare – si era invece arenato in quel posto, fin da allora studiava con attenzione il sapore del cibo, perché sapeva che la morte si insinuava prima di tutto nelle zuppe, nelle carni, nelle pareti; rigirava quindi in bocca a lungo ogni boccone, prima di ingerirlo, sorseggiava piano il vino, che raramente aveva in tavola, o l’acqua, e a volte sentiva un desiderio irrefrenabile di staccare dal muro un pezzettino dell’intonaco salnitroso che copriva la sala macchine del vecchio vano pompe, dove abitava, e di assaggiarlo, affinché nell’irregolarità che disturbava l’ordine degli aromi e dei sapori potesse riconoscere l’Ammonimento, perché sperava che la morte fosse solo una specie di avvertimento, e non una sconfortante definitività».
Immanenza metafisica. Nel romanzo di Krasznahorkai
si percepisce il senso profondo della materia di cui è fatto il mondo, un senso
fatto di colori, sapori, odori, ma non è una materialità autoevidente, ovvia, definitiva.
La concretezza di Satantango nasconde infatti una visione spirituale, non religiosa,
ma universale, assoluta, metafisica appunto. Gli oggetti hanno un loro respiro,
le “cose” si animano. E forse è proprio questa la grandezza del romanzo dello
scrittore ungherese: nel saper condurre la lettura su un piano di trascendenza senza
cadere nell’afflato mistico ma, anzi, restando saldamente piantati con i piedi
per terra.
«Servi erano e servi resteranno finché campano. Stanno seduti in cucina, cagano nell’angolo, e ogni tanto guardano fuori dalla finestra, per spiare cosa fanno gli altri».
La comunità del romanzo di Krasznahorkai
tira a campare, per inerzia, sperando e aspettando (“Allora preferisco non incontrarlo attendendo qui”, la citazione
kafkiana in esergo al testo), ma è una speranza fasulla, improduttiva, cieca;
una specie di autoillusione consapevole dalla quale non ci si libera per
un’impossibilità oggettiva ma per un deficit di volontà, quasi fosse gradevole crogiolarsi
in mezzo a quel niente di niente come maiali pazzi nel fango.
Muffa umida. Odore di palude. Muschio
viscido. Fango. Impotenza. Assoggettamento. Immobilità. La materia di cui è
fatto Satantango
è una miscela micidiale deteriorata e deteriorante di terra, polvere e pioggia.
I giorni, le ore, i minuti di Futaki, dei Halics, degli Schmidt, dei Kráner, degli
Horgos, di Kelemen, di Kerekes, del giovane Sanyi, della piccola Estike, di
János, del dottore e del preside si susseguono uno dopo l’altro accavallandosi
in un fluire di attimi indistinti, perennemente identici ai precedenti.
L’arrivo di Irimiás e Petrina, questa coppia di impostori gogoliani (del primo
si dirà che “è capace di costruire castelli con la merda… ogni volta che vuole”)
non privi però di intelletto e acume, sembra smuovere la comunità dalla
rassegnazione di sempre, ma le promesse confuse che verranno messe sul piatto
saranno anch’esse inghiottite in una spirale autodistruttiva e totalmente
inconcludente.
È una struttura circolare a
definire il meccanismo immaginativo del romanzo di Krasznahorkai. Il libro è composto di 12
capitoli divisi in due blocchi speculari, il primo dal numero I al numero VI,
il secondo dal numero VI fino a tornare al numero I. L’espediente funziona,
soprattutto perché sorretto da un plot essenziale ma ben solido. Periodi lunghi
e sinuosi (ma non fastidiosi, merito questo della traduzione) e l’inserimento
di parecchi elementi grotteschi e surreali amplificano uno smarrimento che
combacia alla perfezione con quel senso di catastrofe che sorregge tutto il
romanzo: il suono misterioso di una campana che non c’è, querce scricchiolanti,
sibili di acacie ondeggianti, lo scrosciare della pioggia, veli trasparenti che
fluttuano, risate inquietanti che sprigionano da ogni dove, cadaveri di giovani
bambine che levitano e poi spariscono fra le nubi. Indimenticabile la scena centrale
della kocsma, con i personaggi che prima si abbandonano a un ballo
sfrenato e godereccio e poi, sfiniti, assistono all’ultima esecuzione del
gigante Kerekes che, gonfio di alcol, si commuove per la sua stessa musica.
Lo stile di Krasznahorkai ricorda quello
di Winfried Georg Sebald, ma il richiamo più immediato è quello agli
interminabili piani-sequenza di Béla Tarr, regista che si è speso tantissimo
per riprodurre cinematograficamente gli universi agglutinanti e claustrofobici dell’autore
di Gyula. Basti pensare ai 432 minuti del Satantango su pellicola che hanno
fatto innamorare Susan Sontag o, anche, Le
armonie di Weirckmeister,
che trae spunto dal suo secondo romanzo, Melancolia della resistenza (uscito nel 1989 e pubblicato
da Zandonai, traduzione di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli), Il
cavallo di Torino, Perdizione, L’uomo di Londra, tutti film sui quali Krasznahorkai ha messo il
sigillo come sceneggiatore o collaboratore.
«Guardò tristemente il cielo funesto, i residui riarsi dell’estate segnata dall’invasione di cavallette, e d’improvviso su un unico ramoscello d’acacia vide passare la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno, e gli sembrò di percepire la totalità del tempo come un inganno farsesco nella sfera immobile dell’eternità, che attraversa la discontinuità del caos creando la satanica finzione di un percorso rettilineo, spacciando tramite una falsa prospettiva l’assurdo per necessità…» e vide se stesso, sulla croce della culla e della bara, mentre con fatica si contraeva ancora un’ultima volta, per poi ritrovarsi, in virtù di un ordine perentorio e ineluttabile, completamente nudo – senza alcun segno di distinzione o d’identificazione – nelle mani dei beccamorti, tra i ghigni di quegli indaffarati scuoiatori di cadaveri, dove non poteva non cogliere la misura di tutte le cose umane, senza un’ombra di pietà, senza che ci fosse anche un solo sentiero a riportarlo indietro, perché a quel punto sarebbe ormai stato consapevole del fatto che aveva sempre giocato con bari contro cui non era possibile vincere, essendo tutte le carte del gioco predeterminate: si trattava di una partita truccata alla fine della quale sarebbe stato privato anche dell’ultima sua arma, la speranza, la speranza di poter un giorno ritrovare la strada di casa».
È vero che i personaggi di
Satantango sono essenzialmente dei miserabili, gente che non è in grado, e
forse non ha neanche voglia di provare a cambiare il corso degli eventi. Dietro
questa inettitudine c’è però qualcos’altro, l’ombra di una consapevolezza che
filtra attraverso le grinfie della catastrofe: è la forza di uno sguardo, quella
contemplazione del mondo “di là della finestra di casa” che poi cede il passo
al tentativo (probabilmente fallito) di affrancarsi da un presente segnato da
un irrimediabile fallimento. È quello lo stesso sguardo di Krasznahorkai, che sa cogliere le
connessioni più intime fra gli elementi del reale e fra questa realtà e tutte
le altre realtà possibili.
È questa la magia che rende
Satantango un romanzo intrigante, un romanzo che, in modo assolutamente imprevedibile,
riesce a ricomporre tutti i frammenti di un discorso più volte interrotto sul
destino dell’essere umano.
Vincenzo Sori
Vincenzo Sori