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Mary Lavelle: un piccolo capolavoro deliziosamente femminile

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Mary Lavelle
di Kate O'Brien
Fazi Editore, 2016

Traduzione di Antonella Sarti

pp. 334
18,50 euro


Mary salì la scala per andare al piano di sopra. Ma fatti cinque o sei gradini si voltò. Anche Juanito, accanto alla porta del salone, si era fermato a guardarla, prima di seguire il padre nella stanza. Il sole del tramonto, riversandosi dalla finestra del pianerottolo, illuminò entrambi con dolcezza, avvolgendoli in un alone fatale. (p. 148)

Difficile recensire un romanzo che, per la sua acuta capacità di narrare e descrivere, si recensisce da sé.
Mary Lavelle, capolavoro novecentesco della scrittrice irlandese Kate O’Brien, racconta la storia di un amore «acerbo e dilaniante» (p. 300), una passione travolgente, sia per i sensi che per l’intelletto, tra la giovane e cattolica irlandese Mary e l’aitante Juanito, promessa politica di una Spagna in piena crisi identitaria.
Ma è pure, e soprattutto, la narrazione di una evoluzione femminile che registra un cambiamento interiore, nel segno della crescita naturale verso l’età adulta, e un movimento universale, emancipatorio, che rende Mary simbolo di una donna che, negli anni Venti del Novecento, inizia il suo complesso cammino (mai terminato davvero) verso l’affermazione di sé.

Mary giunge ad Altorno, in Spagna, per svolgere l’attività di istitutrice all’interno di una famiglia benestante del paese, gli Areavaga. Le tre deliziose figlie, Pilár, Nieves e Milagros, la accolgono con grande entusiasmo, e altrettanta benevolenza è dimostrata dai genitori. Mary, che considera quella spagnola una parentesi avventurosa prima del matrimonio con il fidanzato John e che ha accettato di partire come mossa da un impulso improvviso e irrefrenabile, si affeziona fin da subito alla sua nuova famiglia e ai colori e paesaggi della terra spagnola. È un amore istintivo che affonda le radici nell’animo della giovane, ancor prima che essa ne riesca a prender coscienza.

In questa prima parte del romanzo, che occupa quasi metà del libro, esso somiglia da vicino a un romanzo di formazione, di quelli in cui il viaggio è la chiave che determina la crescita del personaggio.
Da giovane remissiva e ordinaria, Mary diviene a poco a poco una donna di interessi indipendenti, scopre in sé il desiderio di conoscere e apprendere, una nuova cultura, un’altra lingua, per padroneggiare il mondo in cui si trova immersa e di cui non si accontenta di essere passiva spettatrice.
Giunge perfino, nel segreto del suo cuore, essendo impossibile confidarlo nelle lettere affettuose che scrive al fidanzato, ad amare la corrida, la più spietata delle tradizioni spagnole, così inumana e pure così affascinante.
Sebbene non capisse perché, stava crescendo in fretta in quella terra straniera, molto più di quanto lei o John, discutendo dell’importanza di quella crescita, avessero potuto immaginare. Sola, lontana dalla famiglia e dallo sfondo irlandese, priva dell’autorità dominante di John, aveva messo germogli inaspettati. (p. 111)
In quest’apparente nulla accadere, il romanzo manifesta tuttavia un sapore classico per cui l’immobilismo della prima metà è così deliziosamente narrato e composto, da rappresentare un gradevolissimo incedere nella lettura.

Richiamo al sapore classico, perché leggere Mary Lavelle non può non riportare alla mente l’orgogliosa e pur romanticissima Jane Eyre, eroina di Charlotte Brontë, sia per la professione che le accomuna, sia per quel percorso di crescita ed evoluzione che il romanzo sottende alla storia d’amore.
Le tre, deliziose, sorelle spagnole, così affezionate alla loro istitutrice e così profondamente caratterizzate, giovanissime donne acute, d’intelligenza vivace, ricordano Jane ed Elizabeth Bennet di Orgoglio e pregiudizio (con la stessa, delicata, distinzione di bontà e bellezza dell’una, e intelligenza brillante dell’altra), ma anche le piccole donne di Louisa May Alcott, quel loro cercare un posto nel mondo che non sacrifichi né la felicità né la realizzazione personale.
A questo proposito, con tenerezza si leggono le parole su Don Pablo, nei confronti della più piccola, Milagros:
Era cauto con quella figlia; si accorgeva dell’intelligenza penetrante che andava oltre la sua età. Una volta le aveva detto, mentre piena di ammirazione si burlava di Juanito, che forse si sbagliavano tutti perché lei sarebbe diventata «uno dei grandi uomini di Spagna». (p. 71)
Da questa confortante visione classica del romanzo è pervasa, come ho già detto, la prima parte, che si potrebbe definire senza ombra di dubbio alcuno, ottocentesca.
Di tutt’altro tenore è la seconda, allorché fa la sua comparsa sulla scena Juanito, figlio maggiore e prediletto degli Areavaga, giunto ad Altorno da Madrid, con moglie e figlioletto, per far visita alla famiglia. È da questo momento in avanti che si assiste a un cambiamento di passo della storia, che sebbene rimanga fedele al suo stile narrativo raffinato, diviene profondamente novecentesca,  nel suo presentare due protagonisti sull’orlo di una crisi identitaria e sentimentale che rischia di stravolgerli (e che lo farà, senza pietà), disorientati e soggetti all’errore, ad abbandonarsi alla passione, senza prevederne le conseguenze.

Mary Lavelle, in questo secondo passaggio, ci regala pagine di intensa passione, dove l’amore è definito nella sua essenza, con una lucidità e una pregnanza che raramente si trovano in letteratura, ma che forse solo la sensibilità femminile può comprendere appieno, essendo avvezza a studiare le sfumature, a riconoscerle in un quadro emotivo solo all’apparenza banale.
Fu uno sguardo fuggevole e decoroso, un ricordo, irreale quasi, nel suo battito unico e reciproco, e diede a entrambi un’illusione di tenerezza e irruenza. (p. 148)
Un elemento che concorre senz’altro a distinguere questo romanzo dai tantissimi dedicati al sentimento primo per eccellenza, alle passioni proibite e sbagliate, è rappresentato dall’inserimento, accanto a quello tra Mary e Juanito, di un altro amore, un altro battito emotivo, altrettanto «folle e perverso» (p. 288) come lo definisce l'autrice: rivelando, qui, forse, la sua appartenenza a una cultura cattolica, ma allo stesso tempo riconoscendogli la medesima dignità del primo e compiendo, in questo, un atto rivoluzionario.

È l’amore di Agatha Conlan, amica schiva e riservata, per Mary: una passione che la donna le confessa in una pagina di grande impatto, che valse al romanzo la censura immediata, e che permette a Kate O’Brien di dare una grande lezione di amicizia e solidarietà umana.
E così, se anche Agatha e lei non avevano più affrontato l’argomento, il tono con cui parlava all’amica e le atteggiamento che le riservava erano più limpidi e fraterni, non tanto perché quella l’amasse di un amore folle e perverso ma perché, come lei, Mary aveva conosciuto un amore altrettanto folle e perverso. (p. 288)
La via dell’amicizia sincera, ci insegna Mary, è la sospensione del giudizio, da un lato, e il riconoscimento delle identità che condividiamo, dall’altro: base e radici della solidarietà universale.
Nel leggere Mary Lavelle, si può palesare la tentazione di porre sullo sfondo la vicenda d’amore dei due protagonisti, che pure muove le fila dell’azione e la dirige, per starsene lì a osservare i mille altri filoni che l’autrice egregiamente sottende alla narrazione e che ci fanno amare questo romanzo come uno dei più ricchi di riflessioni. L’amore filiale e quello paterno, l’amore calmo e condiscendente di Don Pablo e sua moglie Consuelo, l’amicizia e il valore della comprensione, l’emancipazione e l’indipendenza femminili.

Sopra a tutto il resto, Mary Lavelle rimane un romanzo che affresca in maniera sublime l’animo femminile, così composito e sfumato, così eroico e affollato di prospettive.
Di Juanito, del sentimento che lo muove verso Mary, facendogli tradire una moglie pur apprezzata e ammirata, si comprende poco, si intuisce più che conoscere, a differenza delle ragioni che indirizzano l'agire di Mary. Le figure maschili restano, per una volta, sullo sfondo, caratterizzate da pochi, sapienti tratteggi, piccole, se si vuole, davanti alla grandezza di donne come Mary, Milagros, Agatha, capaci di vivere la propria verità fino in fondo, senza cercare attenuanti, senza giustificazioni se non l’estrema sete di felicità.

In questo piccolo capolavoro, così circoscritto nella realtà che racconta, eppure così prezioso, è la letteratura a farsi vita, dispiegandosi 
«immensa [nel]la visuale, minuscolo lo spettatore!» (p. 307).

Barbara Merendoni