Massimiliano Boni, "Il museo delle penultime cose"

Il museo delle penultime cose
di Massimiliano Boni
66th and 2nd

pp. 373

18,00 (formato cartaceo)
8,99 (formato elettronico)




"All'inizio credi che si tratti solo di raccogliere dei dati e ricostruire una specie di mosaico [...] Ma quando cominci, senti che non è così. Inizi a mettere insieme i tasselli. Ricomponi la storia della famiglia, e scopri che l'uomo, o la donna, su cui ti sei concentrato, era sposato, aveva una moglie o un marito. E dei figli, e anche un padre e una madre. Ti succede allora una cosa strana, come se ti sentissi parte di quella famiglia, uno di casa".
Roma, anni Trenta del Ventunesimo Secolo: Pacifico Lattes è uno storico e un ricercatore presso il Museo della Shoah di Roma, di cui è anche vicedirettore; a lui viene affidato il compito di organizzare una mostra sugli ultimi reduci dei campi di sterminio, ormai scomparsi, quando all'improvviso giunge la notizia della presenza di un possibile sopravvissuto – probabilmente l'ultimo – presso una casa di riposo nella periferia romana. Verificare la vera identità dell'uomo sarà un compito difficilissimo, sia perché Attilio – questo il suo nome – è persona scontrosa e devastata da un'apparente rabbia verso tutto e tutti, sia a causa delle paure e delle insicurezze di Pacifico, studioso eccellente e ricercatore meticoloso che, tuttavia, non è ancora riuscito ad affrontare l'orrore di quanto accadde in quei lager che non è mai riuscito a visitare; per la stessa ragione, Pacifico ha difficoltà a relazionarsi con i superstiti, come se inconsciamente si vergognasse di non aver dovuto percorrere lo stesso calvario. Per questo motivo è solito evitare i rapporti diretti con le vittime, dedicandosi a un'opera di raccolta e catalogazione di notizie e documenti in modo da restituire alle vittime la loro dignità di persone, togliendo loro quello status umiliante di dati statistici.


Dopo un primo incontro infruttuoso, in cui Attilio non racconta nulla e, anzi, si mostra infastidito dalle domande di Pacifico, ne seguiranno altri in cui, poco per volta, il ricercatore riuscirà a guadagnarsi un poco di fiducia da parte dell'anziano, sino a ricostruire faticosamente la storia della vita dell'uomo e, soprattutto, il motivo del suo isolamento e del suo astio; ciò che emergerà è infatti una vicenda che va addirittura oltre l'orrore della deportazione stessa, un peso che Attilio ha sopportato da solo per tutta la vita e di cui, giunto al termine dei suoi giorni, non riesce a disfarsi.

L'Italia del 2035 raccontata da Boni non è poi così diversa da quella in decomposizione sotto i nostri occhi: è infatti un Paese senza memoria in cui stanno sparendo quegli anticorpi che possono arginare il fascismo che sta subdolamente riproponendosi, una ridicola repubblica presidenziale sorretta da populismo e demagogiche restrizioni alla democrazia messe in atto in seguito al crescere della paura, abilmente manovrata e alimentata mediante provvidenziali escalation di volenza e disordine, strumentalizzate ad arte per giustificare il restringimento delle libertà civili. La stessa sorte del Museo della Shoah e di quello che rappresenta pare segnata, poiché senza più testimoni diretti, la memoria dell'Olocausto rischia di essere seppellita dal negazionismo.

Il personaggio principale del romanzo, Pacifico Lattes, si rivela credibile e vero: ebreo sinceramente osservante, impegnato a sostenere i valori in cui crede e a perpetuare il ricordo del male assoluto attraverso la minuziosa ricostruzione delle vite dei deportati, è un uomo alle prese con le proprie paure e con un mondo spesso ostile, violento e ipocrita, copia di quell'Italia in cui le persecuzioni razziali ebbero piena cittadinanza, alimentando lo sterminio di milioni di persone e – questa la cosa più grave – senza che a posteriori siano mai stati fatti i conti con questa vergogna, ennesimo caso di autoassoluzione mediante il silenzio e l'oblio.

Dei diversi aspetti che rendono interessante quest'opera, quello sicuramente più affascinante è la descrizione precisa dei rituali e delle feste della tradizione ebraica, inseriti nella quotidianità di una famiglia come tante, vissuti non come imposizione dogmatica ma come momento di condivisione e socialità. Il narrato, poi, risulta avvincente come un giallo, costruito in modo eccellente con il progressivo svelamento dei particolari della storia dell'anziano sopravvissuto.

Oltre a tutto ciò, e oltre che un omaggio (commovente, davvero) ai milioni di vittime, sopravvissute o meno che furono, Il museo delle penultime cose è soprattutto un testo che fa riflettere sul pericolo, drammaticamente reale, che il venir meno dei testimoni diretti possa portare alla rimozione del ricordo e della colpa. Un invito a tenere viva la memoria di ciò che fu la Shoah, compito che sarà sempre più difficile senza un impegno costante nel raccontarne gli orrori.

Stefano Crivelli