Gli animali nella Storia della Civilità
di Morus (pseudonimo di Richard Lewinson)
Odoya, 2017
Traduzione di Bianca Montalenti
Pp. 365
€ 22
"È l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende". Così recitava uno dei tanti slogan fascisti che tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento spesso erano visibili dipinti sui muri delle case in Italia. Tuttavia, senza stare qui a prendere posizione sull'ovvia retorica che ammanta simili slogan, occorre una riflessione: se infatti la spada è, come logico che sia, brandita da un essere umano, chi è che materialmente spinge l'aratro? Facile direte voi: i buoi! Ecco proprio da questa logica risposta però si apre un mondo, un mondo che vede come protagonisti gli animali ma non in una, diciamo così, semplice etologia quanto in uno studio sul rapporto tra esseri umani e animali. Questo è il senso intimo di Gli animali nella Storia della Civilità, libro edito da Odoya nel 2017 e scritto da Morus, pseudonimo, insieme a Campanella, di Richard Lewinson, giornalista economico e scrittore tedesco del Primo Novecento. Il libro va così ad indagare questo mondo il più delle volte misconosciuto e tenuto da parte dalla Storia ufficiale, troppo presa a raccontare le gesta e le conquiste degli uomini, senza considerare mai i loro "compagni di viaggio ed aiutanti" animali. Nobile scopo per questo volume ma, bisogna asserirlo in sede preliminare, non completamente raggiunto. Il testo di Morus infatti si presenta, soprattutto oggi, come "uno splendido errore".
Ma si avanti e insorge un altro problema. Chi scrive la recensione non conosce il tedesco e quindi non ha avuto modo di accedere con cognizione di causa alla versione originale, tuttavia una domanda si impone: siamo sicuri che le scelte di traduzione, la selezione lessicale sia stata corretta? Era proprio necessario, sempre che appaia anche nell'originale, l'appellativo di "pazzoide omosessuale" (cito testualmente) riferito all'Imperatore Eliogabalo? Lungi da noi difendere il monarca di origine siriana ma certamente tali parole stridono grandemente e con la nostra sensibilità e con la serietà dell'opera. Ma tali selezioni abbondano nel libro e, come dire, lo rendono meno interessante e autorevole di quello che, molto probabilmente, realmente è. Chiediamo perciò spiegazioni a chi ne sa più di noi: già il testo originale era così sbarazzino e naif oppure trattasi di una scelta della traduttrice e della casa editrice?
Detto questo lo studio di Morus in certi momenti è davvero appassionante. Soprattutto quando parla dell'addomesticamento del cane dal lupo, anche se con teorie ovviamente un pochino superate dalla moderna scienza, si lascia leggere con grande piacere. Più zoppicante quando entra nelle dinamiche sociali delle spiegazioni, con evidenti scivolamenti nelle filosofie eugenetiche di stampo razzistico che tanto male hanno fatto durante il Secolo breve. Egli, ad esempio, ricorda come (non citiamo testualmente ma per sommi capi) "gli uomini preferirono addomesticare per la guerra gli elefanti indiani, più miti e mansueti, rispetto ai loro cugini africani. Questo a conferma della naturale predisposizione alla sudditanza dei popoli asiatici". Certo, probabilmente il testo recitava esattamente così, ma perché non inserire un commento che contestualizzi il tutto? Senza si rischia di travisare il pensiero del giornalista tedesco, tra l'altro molto vicino ai patimenti che gli animali hanno dovuto subire nel corso dei millenni ad opera dell'uomo.
E si prosegue così per tutto il volume con questa qualità a sprazzi, senza che si possa mai, consentici la parola, "star tranquilli" di non trovare qualche termine o qualche passaggio non consono alla qualità dell'opera. Già pubblicata da Einaudi nel 1956, Gli animali nella Storia della Civiltà è un magnifico sbaglio: un libro che parla di un argomento bellissimo e davvero molto interessante, ma che non riesce mai ad arrivare al nocciolo della questione per uno stile, un'edizione e un approccio un po' troppo scanzonato e non molto curato che certo non ci confà ad un volume del genere. Insomma siamo lontani anni luce allo splendido melò di un film come War Horse che in certe scene, senza dialoghi ma ricche di splendide inquadrature, fa comprendere perfettamente il dramma dei cavalli impiegati sul fronte della Grande Guerra.
Mattia Nesto
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