Una vita parassita: "Undici treni" di Paolo Nori

Undici treni
di Paolo Nori
Marcos y Marcos, 2017

pp. 158
€ 16.00 (cartaceo)



Undici treni di Paolo Nori potrebbe essere la storia di questi viaggi in treno del protagonista, Stracciari nato a Medicina di professione operatore video. Ma forse è un racconto che parla d'altro: di buchi neri, della relazione con una sarda che si chiama come una regione dell'Asia minore (Lidia), di come Stracciari (che non si chiama davvero così) è diventato Stracciari, della strana amicizia con il "comico" (leggi: scrittore) Baistrocchi dietro il quale è facile riconoscere lo stesso Nori.

Insomma, "Undici treni" avrebbe potuto anche intitolarsi "Absit iniuria verbis", ad esempio, come il refrain che scandisce i nodi salienti del libro. Che l'offesa stia lontana dalle parole. A Stracciari infatti piace più che altro registrare silenzi e suoni; e, nei servizi televisivi per una emittente locale emiliana, anche immagini di un'Italia ai margini, periferica, in abbandono e abbandonata. Forse reminiscenze cinematografiche nel segno di Antonioni, maestro dell'incomunicabilità filmica come lo è Stracciari di quella verbale e non. La paura inconfessata che il protagonista di Nori si porta dietro, come un'eredità difficile da gestire, è proprio quella di offendere, di fare del male; di arrendersi, con le parole e con i fatti, alla fatalità dell'iniuria.


Per questo motivo occorre distanziarsi da quella che fino ad allora era stata la sua vita, quindi crearne una nuova dove la ex convivente "quasi moglie" diventa una regione dell'Asia minore e Arturo Mezzadri, nato a Ospitaletto di professione grafico, si trasforma nel suo doppio Stracciari, senza che per questo ci sia una ripartizione netta come tra Jekyll e Hyde. Il male, se c'è, sta tutt'al più nelle parole. In quelle dette e soprattutto in quelle taciute. E in quelle che non ci appartengono.

Questo è ciò che sembra dirci Nori non tanto tra le pieghe quanto in una lunga nota paratestuale di questo racconto. Si è in presenza del male quando la lingua diventa "parassita", vive di vita propria, cioè alle spalle del soggetto parlante, generando così uno scollamento tra la realtà e la sua rappresentazione, tra la cosa e la parola, tra l'io e il linguaggio. Scrive infatti Baistrocchi-Nori:
[...] m'era venuto in mente di quando avevo fatto l'attore, in teatro, nove giorni, nel 2007, a Napoli, e avevo un regista che mi aveva fatto vedere che io avevo dei gesti parassiti, cioè gesti che vivevano su di me senza che me accorgessi [...]. E dopo, a ripensare a quella cosa che mi aveva detto il regista, io mi ero accorto che quando parlavo, e quando scrivevo, davo voce a delle espressioni parassite, che vivevano su di me senza che me ne accorgessi. (p. 80)

La storia di Mezzadri-Stracciari si può dunque risolvere in questa constatazione meta-letteraria: Stracciari è, narrativamente parlando, un parassita; una forma marcatamente iperletteraria a cui Nori presta la parola e in modo particolare lo stile eccessivo, esibito, circolare della sua scrittura. Absit iniuria verbis.


Pietro Russo