Presenze
di Christian Bobin
Perosini, 2000
pp. 80
€ 9,30
Titolo originale: La présence pure
Traduzione di Guido Dotti
Presenze è un breve testo in prosa che potrebbe essere senza incertezze definito poesia. Due i protagonisti, un padre affetto dal morbo di Alzheimer, che trascorre i suoi ultimi giorni in una casa di lungodegenza, e un albero che l’autore vede fuori dalla finestra, correlativo oggettivo di una trasformazione nella persistenza:
Mio padre e quest’albero mi suscitano gli stessi pensieri. Dall’uno, naufragato nel suo spirito, e dall’altro, sorpreso dall’autunno, attendo e ricevo la stessa cosa (17).
Cosa sia questa “cosa” ricevuta come dono quotidiano, inaspettato ma necessario, si scopre nello scorrere rapido delle pagine, mentre ci si sforza di rallentare, per godere di più del peso delle parole, per sentirle riecheggiare, per apprezzare la difficoltà del lavoro del traduttore nel rendere la precisione evanescente del lessico. Quella di Christian Bobin è un'opera ossimorica, in cui la poesia e la meraviglia di ogni giorno incontrano il dolore, la paura, l’assenza, talora anche la durezza delle immagini.
Il malato di Alzheimer ritrova la purezza dello sguardo e acquista una sapienza antica e intermittente, mentre pochi attimi di consapevolezza bastano ad annientare, seppur temporaneamente, la magia: “la bestia che rode loro la coscienza gliene lascia quel tanto che basta perché conoscano, per istanti, l’orrore di essere là” (37). Bobin racconta una storia di morte e rinascita che coinvolge la natura quanto le persone amate, e i due piani si sfiorano e si accarezzano, mai sovrapposti, ma sempre implicantisi l’un l’altro. Uno alla volta compaiono i coprotagonisti: la neve, il vento, il sole; la “piccola mummia” che nasconde dentro la “gran signora” che era un tempo (“è là che urla in silenzio nel fondo umido degli occhi”, 31); i compagni di corsia, che aiutano a far rinascere la speranza in mezzo all’inferno con una semplice stretta di mano; la madre, che “si inscrive nella discendenza di quelle donne che, fin dalla fondazione del mondo, forniscono alla vita il suo alimento di luminosità anche nelle tenebre” (41). Nel raccontare questi frammenti di umanità Bobin recupera il tempo lungo che è proprio delle giornate di chi non ha più memoria, né controllo sul flusso delle ore: la sua è una descrizione all’insegna della “cautela”, della prudenza di chi vuole toccare senza ferire, esplorare senza profanare. Perché esiste una sacralità nella dignità umana che neanche la malattia può tangere o incrinare, che deve essere tutelata e accudita come qualcosa di fragile e bello. Christian Bobin è un uomo intriso di religiosità, ma una religiosità continuamente messa alla prova (e riconfermata) dal contatto con il padre morente. Il suo obiettivo può apparire umile, ma è ambizioso: si tratta di trovare “qualche frase abbastanza luminosa e onesta” (49) da descrivere qualcosa di ineffabile, di inesprimibile a parole. Di riuscire a rappresentare la “presenza pura” dell’uomo e dell’albero davanti alla finestra, entrambi inermi, entrambi fragili, entrambi a proprio modo resilienti, entrambi aperti alla vita che scorre, entrambi disposti a lasciarsi agire dall’esistenza. Da entrambi lo scrittore impara la malinconia, la speranza; la rabbia, la rivolta; la necessità di rinnovarsi e lasciar andare qualcosa per poter sopravvivere, per riscoprire il valore delle cose:
Se san Tommaso mette il dito nelle piaghe del Cristo risorto, non è tanto per porre fine ai propri dubbi, quanto piuttosto perché ci sono momenti in cui la vita se n’è andata così lontano nello smarrimento e in cui la sua presenza è così scottante che non resta che tacere – e toccare con la punta delle dita il corpo miracolato dell’altro. Lo sanno a modo loro i Cristi seduti in poltrona di fronte al muro, nella casa di estrema degenza (67).
Carolina Pernigo
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