di Rupi Kaur
Tre60, 2017
pp. 204
€ 12 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
il problema della scrittura è che
non so dire se mi guarisca
o mi distrugga
Milk and honey è stato per ben nove mesi ai vertici della classifica del «New York Times», con oltre un milione di copie vendute e ormai è faticoso contare il numero delle traduzioni. No, non si tratta dell'ennesimo bestseller thriller, o del ritorno di un attesissimo autore che fa cassetta. Si tratta di una poetessa, la giovane Rupi Kaur, indiana d'origine, ora dell'Ontario: poco più che ventenne, Rupi arriva alla cronaca per le foto che sono state ritirate da Instagram, poi all'editoria per le sue poesie, prima condivise sui social network. Dunque, il boom: nuove centinaia di migliaia di followers, un contratto editoriale in America, diritti venduti in tutto il mondo, le sue letture pubbliche piene di pathos,...
Ma che cosa c'è alla base di Milk and honey?
A noi di CriticaLetteraria interessa relativamente il successo mediatico: preferiamo che siano i testi a parlare e, fin dalle prime pagine, Milk and honey conferma un grande coraggio, privo di velleità retoriche, con poesie profondamente denudate di fronzoli aggettivali per arrivare al significato più intimo.
La prima sezione rivela componimenti secchi, laceranti, con poche parole per verso, estremamente pregnanti. Non ci sono veli, né scabrosità, nonostante s'intitoli "Il ferire", tema che si dipana a partire dal dolore fisico e psicologico di uno stupro, che si rifletterà anche nelle relazioni successive. Ma non c'è patetismo: anzi, solo attraverso la dolorsa ma inevitabile accettazione del dolore si potrà giungere alla seconda sezione, "l'amare", forse la parte che cede maggiormente alla metafora (per quanto mai esagerata, come in «la sola idea di te/ mi divarica le gambe/ come un cavalletto con una tela/ che implora arte») e all'estasi del racconto, fino al gusto iperbolico proprio dell'incendio dei sensi:
Forse anche per questa particolare alchimia la terza sezione, "lo spezzare", già a partire dal suo titolo segna una cesura forte («devi aver capito/ di esserti sbagliato/ quando le tue dita/ tuffate in me/ hanno cercato miele che/ non veniva per te»), tra la felicità dell'amore e il dopo, momento delicatissimo in cui bisogna imparare a fare i conti con sé stesse, con il proprio corpo tornato ad essere uno, con la solitudine e la miseria di un sentimento non più condiviso, se non sulla pagina scritta («la mia lingua sa di aspro/ dalla fame della/ nostalgia di te»). E qui tornano consigli materni, che forse aiutano l'io-lirico a traghettare verso "la guarigione", ultima sezione, meno intima e scopertamente indirizzata all'esterno, più piegata verso massime e consigli ad altre donne che hanno vissuto la stessa parabola di felicità e disperazione. Accettarsi, amare sé stessa, come precondizione per amare gli altri e farsi amare: un insegnamento che Rupi Kaur ha provato per prima. E che ha deciso di condividere, con l'immediatezza di un linguaggio che supera i blocchi dell'interpunzione e delle maiuscole, che si ribella e va a capo quando lo ritiene più capricciosamente opportuno.
GMGhioni
La prima sezione rivela componimenti secchi, laceranti, con poche parole per verso, estremamente pregnanti. Non ci sono veli, né scabrosità, nonostante s'intitoli "Il ferire", tema che si dipana a partire dal dolore fisico e psicologico di uno stupro, che si rifletterà anche nelle relazioni successive. Ma non c'è patetismo: anzi, solo attraverso la dolorsa ma inevitabile accettazione del dolore si potrà giungere alla seconda sezione, "l'amare", forse la parte che cede maggiormente alla metafora (per quanto mai esagerata, come in «la sola idea di te/ mi divarica le gambe/ come un cavalletto con una tela/ che implora arte») e all'estasi del racconto, fino al gusto iperbolico proprio dell'incendio dei sensi:
non voglio avertiEcco che allora la fisicità si muta e si fa scoperta di sé grazie al tocco dell'altro, all'esplorazione dei propri sentimenti e delle percezioni. E la concretezza dell'amore viene accompagnata però dalla seduzione della parola («è la tua voce/ a spogliarmi»), in grado di pronunciare desideri, annunciare azioni future, o anche solo prepararle.
per riempire i vuoti in me
voglio essere piena già di mio
voglio essere così completa
da poter illuminare una città intera
e dopo
voglio averti
perché noi due messi insieme
potremmo incendiarla.
Forse anche per questa particolare alchimia la terza sezione, "lo spezzare", già a partire dal suo titolo segna una cesura forte («devi aver capito/ di esserti sbagliato/ quando le tue dita/ tuffate in me/ hanno cercato miele che/ non veniva per te»), tra la felicità dell'amore e il dopo, momento delicatissimo in cui bisogna imparare a fare i conti con sé stesse, con il proprio corpo tornato ad essere uno, con la solitudine e la miseria di un sentimento non più condiviso, se non sulla pagina scritta («la mia lingua sa di aspro/ dalla fame della/ nostalgia di te»). E qui tornano consigli materni, che forse aiutano l'io-lirico a traghettare verso "la guarigione", ultima sezione, meno intima e scopertamente indirizzata all'esterno, più piegata verso massime e consigli ad altre donne che hanno vissuto la stessa parabola di felicità e disperazione. Accettarsi, amare sé stessa, come precondizione per amare gli altri e farsi amare: un insegnamento che Rupi Kaur ha provato per prima. E che ha deciso di condividere, con l'immediatezza di un linguaggio che supera i blocchi dell'interpunzione e delle maiuscole, che si ribella e va a capo quando lo ritiene più capricciosamente opportuno.
GMGhioni