Il salto
di Sarah Manguso
NN Editore, 2017
Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 112
€ 16
Io ho scelto esattamente tutto quel che sono
senza la scelta io la vita l'abbandono
ho scelto tutto, tutto tranne il mio dolore
lo ammazzo io e non c'è niente da capire.
(Il Testamento, Appino)
«Il dolore che porto con me ora, e che a volte si attenua senza preavviso, non è il suo. Questo dolore è mio, e a differenza del mio amico non cerco di nasconderlo. Lascio che ricopra tutto. Urlo in casa. Piango in metropolitana. Dico a quelli che conosco che il mio amico si è buttato sotto un treno.»
Il salto di Sarah Manguso, appena uscito per NN Editore, nella traduzione di Gioia Guerzoni, ha come sottotitolo “Elegia per un amico”. Ed è tutto qui. Queste poche e brevi pagine sono un urlo sommesso, sono la ricomposizione impossibile di una polaroid strappata che reca un sorriso mai dimenticato.
Il lutto per la morte di un amico che si è buttato sotto un treno della metro non è qualcosa che si può elaborare. È una cieca furia contro cui si deve lottare.
Non importa poi molto in fondo chi fosse Harris, non importa come gli piacesse cucinare il pesce, o che tipo di cocktail fosse il suo preferito, non importa che fosse un musicista, o che avesse un pene maestoso, o almeno così si diceva di lui.
Harris non c'è più, ed il dolore non è quello della perdita, è quello dell'essergli sopravvissuti.
Non c'è indagine possibile, di fronte al Grande Salto. È del tutto inutile giustificarlo con una diagnosi di schizofrenia, cercare un'origine, e una colpa, ricordare gli episodi precedenti.
È un buco, un vuoto che non si riempie.
Il salto è un libro difficile da affrontare, in bilico fra la morbosa attrazione per le concause di un suicidio e il pudore di entrare in una storia che non è nostra ma che ci coinvolge più di quanto saremmo disposti ad ammettere. Il salto è uno di quei libri che mette in imbarazzo.
Non è importante la storia, né la ragione. Qui conta solo il sentimento. E il sentimento che pervade questo libro è un'angoscia implacabile.
Perché un suicidio è una forma di morte perfettamente sensata, a suo modo, eppure tragicamente sfuggente.
Non c'è ombra di conforto religioso, o di consolazione. Esiste il qui, esiste l'ora, esiste il passato solo perché è ancora un treno della metro che continua a correre, ogni giorno sullo stesso binario. Una dimensione sospesa e ossessiva, l'eterno presente di chi è rimasto sul bordo, di una banchina o di una sepoltura, e ha dovuto guardare giù.
Harris è l'amico attraverso il quale si è specchiata Sarah, e continua a specchiarsi, e meglio, ora che lo specchio si è frantumato, ora che riflette la molteplicità di schegge di vita che va ricomposta, in qualche modo, in funzione di, o nonostante, la terribile mancanza.
E in alcune di queste schegge siamo riflessi anche noi.
Che siamo tutti soli di fronte alla morte, soprattutto -che ci piaccia o no- di fronte a quella degli altri.
«Il sentimento d'amore non è per l'amato. È per chi ama. Quando mi dicono di amare tanto da non riuscire a respirare, non mi interessa. Sono loro a essere senza fiato. Soltanto il comportamento nei confronti dell'amato conta. Solo il comportamento è dimostrazione d'amore, è amore.
Per questo mi vergogno del mio dolore.
[…]
Il mio dolore non è per Harris.
È per me.»
Giulia Marziali
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